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La preghiera ha come primo frutto la carità. Il nostro cuore, in questo esercizio di amore, viene riabilitato ad amare. I movimenti sono sempre due: ci spinge dentro noi stessi, nella nostra interiorità abitata da Dio e spesso disertata per paura o non consapevolezza. Ma poi ci spinge fuori, come per un’abbondanza d’amore ricevuto e sperimentato, che non può essere trattenuto. La preghiera è sempre un movimento del cuore che non si arrotola o attorciglia in se stesso, ma si slancia verso l’altro. è sempre una relazione, con se stessi e con Dio, e in modo naturale anche con le persone che ci sono accanto, fino alle più lontane. Diventa questa anche la chiamata di ciascuno: ascoltare e comprendere qual è il posto nella vita in cui possiamo amare di più. Amare ed essere amati. Davvero il Signore vuole grandi cose da ciascuno di noi, e alla sera della vita sarà proprio questo l’essenziale che resta: l’amore dato e ricevuto. Ecco la testimonianza dalla biografia di Bettina:

“E in casa e fuori, con il nonno ammalato e accolto in famiglia, coi parenti, coi vicini, la sua carità non ha limiti; il suo cuore conosce le altrui pene e vibra con tutti coloro che soffrono. Una bambina preparata da Bettina alla prima Comunione, testimoniò che ella pregava, pregava sempre, perchè il Signore – diceva – adempisse in lei i suoi santi disegni, e ripeteva: sento che il Signore vuole da me grandi cose, ma non so per quali mezzi: spero che in seguito me lo farà conoscere”.

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C’è chi vive la preghiera come una tortura, perchè è un tempo che non sa come riempire, prova noia, non si sa che dire. C’è chi vive la preghiera come un tempo di pace e sollievo, di benessere, in cui decomprimersi rispetto allo stress e alle preoccupazioni. La preghiera ha in sè entrambi gli aspetti: fatica e sollievo. Eppure il punto non sta nè in questo nè in quello. È normale infatti che non solo nell’arco della vita, ma nell’arco di una stessa giornata, si alternino i momenti di aridità a quelli in cui viene più spontaneo raccogliersi. Il punto sta nella consapevolezza che questo tempo è, comunque sia, un tempo molto prezioso, e mai sprecato. È un tempo infatti di autenticità, in cui restare nella verità di se stessi, sotto lo sguardo di Dio, che ama e perdona. La verifica non sta tanto in un’analisi della propria prestazione davanti a Dio, bensì nel vedere se questo cammino di preghiera (più o meno arido) porta frutti di carità. Tanto più questo tempo speso nel silenzio e nel rapporto con Dio mi apre alla relazione con l’altro, mi apre ai bisogni dell’altro, al perdono e all’accoglienza, tanto più è segno che l’amore di Dio ha trovato il tempo e lo spazio per fare radici nella profondità di me stesso:sono dunque sulla buona strada. È quello che si può notare nel percorso di Bettina:

 “Quando mi detti tutta a Dio – racconta Bettina – avevo 19 anni”. Ella si inoltra sempre più nel cammino della perfezione cristiana e pascolo della sua vita divengono la preghiera e la meditazione. È questo il suo rifugio. Nelle ore libere dalle faccende domestiche e dal lavoro fa sua letizia trascorrere il suo tempo nella chiesa solitaria e là rimane lungamente come assorta, che se talvolta si toglie dalla sua profonda meditazione, è solo per correre là dove è un dolore da lenire, una lacrima da asciugare, una sventura da sollevare, e a tutti si porge amorosa e servizievole. La carità di Cristo ha già posto profonde radici nel suo cuore”.

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La Chiesa vive dell’Eucaristia. (…) L’Eucaristia, presenza salvifica di Gesù nella comunità dei fedeli e suo nutrimento spirituale, è quanto di più prezioso la Chiesa possa avere nel suo cammino nella storia. (papa Giovanni Paolo II).

Bettina ha coltivato fin da piccola un’attrazione e un amore particolare per Gesù Eucarestia. All’inizio si trattava di quella intuizione che Dio dà ai più piccoli, ricettivi e aperti al mistero. L’intuizione di trovarsi proprio in compagnia di Gesù, sotto il suo sguardo amoroso e benedicente, che sempre ci aspetta per riversarci la propria vita, in una pace profonda. Lasciamo dunque andare ogni resistenza di fronte a questo mistero, e rimaniamo semplicemente nel suo amore. Con stupore, adorazione e riconoscenza.

Gesù Eucarestia divenne fin dalla prima Comunione di Bettina il fulcro e l’alimento della sua vita, come più tardi di tutta l’opera sua. “Quando ero bambina” narra ella stessa, “se venivo a sapere che in qualche chiesa si teneva Gesù esposto, ero tanto felice di andare a fare l’ora, e per stare più raccolta cercavo sempre di mettermi in un cantuccio: provavo tanta consolazione, che ci sarei rimasta tutto il giorno, se non avessi avuto paura di far brontolare la mamma; e quando venivo via, avevo in me tanta gioia per essere stata un poco con Gesù, che mi pareva di volare”.

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Ognuno proviene da una terra santa, ed è quella delle proprie relazioni familiari o comunque delle prime relazioni di riferimento. Santa non significa perfetta. Crescendo si prende consapevolezza della fragilità e delle mancanze di questo primo nido che ci ha consegnato la vita, e menomale, perchè serve a formare in noi uno sguardo di misericordia verso l’altro e verso noi stessi, dal momento che siamo creature. Ma se siamo creature, significa che qualcuno ci ha creati, e guardando al creatore, scopriamo che Egli benedice la propria creatura come qualcosa di molto buono! Crescendo, si prende consapevolezza maggiore anche della bontà di queste radici, che hanno saputo trasmetterci valori, buone abitudini, educazione e fede, ovvero un tesoro di cui non sempre ci accorgiamo. Ecco che la Beata Teresa Maria della Croce, insieme alle cronache del tempo, ci consegnano il racconto della mamma, Rosa Manetti, come colei che ha saputo con la propria vita trasmettere una fede viva in Dio, fatta di fiducia e abbandono. E una carità pratica, fatta di fatica e sacrificio a favore dei propri figli.

“Accanto alla culla dei giovani santi la Provvidenza colloca ordinariamente una madre virtuosa. Tale fu Rosa Manetti. Donna semplice, senza istruzione alcuna, ma di antico stampo, di viva fede e di profonda religione, rimasta vedova e priva di beni di fortuna, non si lascia abbattere dalla desolazione, ma sa rivolgere la sua mente a Dio, perchè non ha dimenticato che Egli solo può aiutarla a portare una simile croce. Non avendo altre risorse per nutrire i suoi piccoli, non risparmia fatiche nè sacrifici, e in tal modo tira avanti la famigliola, pur nelle strettezze e fra le lacrime.”

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Quest’anno festeggiamo 150 anni della famiglia religiosa delle Carmelitane di Firenze. Ma andiamo alle origini di questa storia. Le radici hanno un nome ed un volto: Teresa Manetti, chiamata la Bettina, originaria di Campi Bisenzio (FI). Ecco gli inizi della sua vita:

“è una casetta da pigionali di proprietà del marchese Viviani della Robbia, sulla via dei Mori, oggi segnata col numero 41. I suoi abitatori sono l’umile pollaiolo Gaetano di Salvatore Manetti e Rosa di Pietro Bigagli: giovani di schietta pietà e di onorato costume. Primo frutto delle loro nozze cristiane celebrate il 22 aprile 1845 è la piccola Teresa, che vide la luce il 2 marzo dell’anno seguente alle tre del pomeriggio e fu rigenerata nelle acque battesimali il giorno dopo, nella Pieve di S. Stefano a Campi”.

Il Signore sceglie ciascuno di noi «per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Ef 1,4). Le umili origini di Bettina siano per noi segno di una chiamata all’unione con Dio che è universale, per tutti, nessuno escluso, ricchi e poveri, oltre ogni confine di nazionalità, cultura, appartenenza.

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