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Come esistono vari modi di prendersi cura della salute e del corpo, esistono vari modi di custodire la Vita Spirituale. In questo articolo, desideriamo riflettere sul primo passo per procedere nel cammino verso una vita sana nello Spirito.

Si tratta sì di un cammino, ma la mèta non è un luogo bensì l’ incontro con un volto, una persona: il Signore nostro Gesù Cristo.

La Preghiera è il punto di partenza nel cammino spirituale; essa è come la chiave di Sol sul pentagramma, senza la quale non si può leggere né suonare lo spartito. Infatti per i padri del deserto, la preghiera è come “barometro che segna il livello della vita spirituale”. Nel giardino di Eden tutto cresceva grazie ad una sorgente d’acqua. Nella vita spirituale questa sorgente che dà la vita a tutte le virtù si chiama preghiera.

La preghiera è necessaria, perché è quella che ci fa mantenere in relazione con il Signore. Senza la preghiera, questo rapporto intimo con Cristo non viene alimentato, diventa vuoto e rischiamo di cadere nell’oblio totale di Dio.

La domanda è: come si prega? Quando hanno fatto questa domanda a S. Teresa di Gesù, lei ha risposto con una frase famosissima:

La preghiera non è altro per me, che un trattare con amicizia, intrattenendosi molte volte da soli con Chi sappiamo che ci ama.

Quindi per Teresa la preghiera è l’atto impersonale con il quale una persona si vincola, è legata ad un’altra; un legame che non indica “staticità”, bensì la sua piena attuazione. In questo senso, lo stare rapportati, esige la presenza di due persone, come tra “due amici”, perciò solamente con questa presenza si verificherà la comunicazione e connessione attesa e desiderata.

Come prima cosa da imparare è prendere coscienza della Sua presenza ovvero essere presente a Colui che è già presente, questo è l’inizio di ogni preghiera. È un esercizio molto importante; non è assolutamente un atteggiamento da farsi periodicamente e quando pensiamo di sentirne il bisogno a livello psicologico, piuttosto è uno stile di vita, è un modo di viversi sempre alla presenza di Dio.

Durante la preghiera a chi si rivolge e cosa si deve dire?

Noi cristiani, ci rivolgiamo a Dio Vivo ed è presente, che è Trinità, che è famiglia, e pregando noi siamo inseriti in questo mistero dell’eterno colloquio delle Persone Divine. Infatti come dice una antica formula liturgica: “ogni preghiera viene rivolta al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo.” Per poter pregare dobbiamo essere uniti con Cristo “cristiformi”; e ciò è opera dello Spirito Santo.

Nella preghiera, noi possiamo dire tutto ciò che portiamo nel cuore e nella testa. Sì tutto, perfino il peccato e le mancanze, non dobbiamo vergognare di parlarne col Signore. S. Agostino in questo riguardo formulò una regola larghissima: “Tutto ciò che possiamo desiderare, possiamo chiederlo nella preghiera.” essendo un colloquio con un nostro Familiare, apriamoci a Lui ed impariamo a condividere con Lui tutto ciò che ci abita interiormente senza paura né vergogna. Egli ci ascolta sempre.

sr Dina della Santa Famiglia

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Tante volte, nei nostri rapporti quotidiani, fatichiamo per conquistare o meritare un buon rapporto con qualcuno. Invece con Dio non è così. Con Dio TUTTO è GRAZIA.

La relazione con Dio, quella che noi chiamiamo preghiera, non si acquista con i nostri sforzi o con i nostri meriti, si tratta solo di accorgerci e accogliere l’amore che Egli vuole riversare nei nostri cuori.

“Ogni contatto con Dio è preghiera, ma non ogni preghiera è contatto con Dio!” dice abuna Matta El Meskin, sembra un gioco di parole, ma non lo è.

Perché a volte preghiamo senza alcun desiderio di comunicare con Dio, semplicemente per senso di dovere. Questa non è preghiera, la preghiera non è un dovere che compi per dare a Dio una parte del tuo tempo e delle tue forze e nulla più.

La preghiera è reciproco desiderio di incontrarci con il Signore, “È un’opera realizzata in collaborazione tra l’uomo e Dio” ci spiega abuna Matta El Meskin. Questa opera esige un restare in continuo contatto spirituale con il Signore. Si tratta di imparare un’arte. L’arte di prendersi cura del proprio rapporto con Dio, è un atto di perseveranza e fedeltà a questo rapporto. Ciò non vuol dire stare 24 ore in chiesa né rattristarsi per la scarsità del tempo disponibile per pregare, bensì si tratta di assicurarsi di essere pieni di desiderio di comunicare con Dio e di essere sinceri nel proprio cammino spirituale. “Allora ti accorgi che i minuti possono essere come giorni” e lo Spirito Santo ti concede, anche in poco tempo, delle grosse opportunità di rallegrarti e di sentirti ricolmo della sua presenza.

Dice abuna Matta El Meskin: “In genere, il lamento per la scarsità del tempo disponibile per la preghiera è solo una falsa scusa per giustificare l’“io” nella sua negligenza, trascuratezza e indifferenza nello stare di fronte a Dio.”

“Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!” (Mc 13.37). Cosa significa?

Significa essere coscienti e vigilanti; non superficiali e distratti. Chiediamo allo Spirito Santo il dono della vigilanza del cuore e l’attenzione ad ogni istante della nostra giornata, perché diventi una preghiera, trasformando ogni minuto morto in un’opera divina eterna.

La vigilanza del cuore durante la mia quotidianità – di qualunque tipo sia: a casa come a scuola, come in fabbrica, in campagna, in negozio o in ufficio, al bar o al lavoro – ecco il segreto. L’importante è rimanere sempre in preghiera nel segreto del proprio cuore; essere sempre e dovunque in contatto con il Signore.

“La vigilanza del cuore – cioè il prestare a più ripresa durante la giornata l’attenzione al Signore Gesù, mantenendo viva una conversazione segreta con Lui, fatta di silenziose parole d’amore – non è assolutamente inferiore allo stare in preghiera in chiesa. 

Dunque, il secondo passo per un cammino sano nello Spirito è vigliare, approfittando di ogni secondo della propria giornata per connettersi con il Signore.

Sr Dina della Santa Famiglia

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Mille scelte: è iniziato il cammino per ascoltare la voce di Dio nella propria vita e compiere decisioni. Il processo decisionale è fatto sia di considerazioni e valutazioni pratiche in cui metto in gioco la mia intelligenza, prudenza e conoscenza della realtà in cui mi muovo. Sia di una realtà interiore, per cui attraverso le mia scelte esprimo chi sono e do forma, passo dopo passo, al mio cammino di vita. Sia di una dimensione di fede, per cui sebbene non abbia il controllo nè sicurezza che le decisioni che prendo siano quelle “giuste”, ho però la certezza che il Signore da tutto quello che vivo riuscirà a ricavarne il mio maggior bene, volgendolo in direzione di una crescita e di una maggiore consapevolezza. Egli infatti è il Dio della vita, ed è il mio primo alleato nella ricerca del mio cammino di vita personale. Scelta dopo scelta, plasmo così la mia esistenza storica, che è unica. Per questo è importante il contatto con la realtà in cui mi trovo, che mi offre determinate opportunità, limiti e condizionamenti più o meno positivi, ma anche il contatto con me stesso e con quello che sono chiamato ad essere. Ed il contatto con Dio, che parla nei miei sentimenti e pensieri più profondi, nel luogo più intimo di me stesso, dove lui trova dimora.

Prima fondamentale decisione che sono chiamato costantemente a compiere dentro e fuori di me, è per  la vita:

“Ti ho proposto la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli la vita, perchè viva tu e la tua discendenza” Dt. 30,19

Possiamo deciderci o per il lamento o per il cambiamento interiore. Non importa in quali situazioni ci troviamo o quale storia abbiamo alle spalle. Posso anzitutto scegliere se affogare nell’autocompatimento, nella dipendenza, nella paura, o cogliere la vita come una sfida per crescere interiormente. Ho bisogno di decidermi per la vita, altrimenti vengo corroso dal mio vuoto interiore. Chi si decide per la vita è come un uomo saggio che costruisce la propria casa su una roccia. Quella casa non può essere distrutta, nemmeno dal crollo delle illusioni. È costruita su fondamenta solide, ossia su Dio stesso.

Mi decido dunque per un preciso modo di vedere: scelgo quello in cui posso amare di più, ciò che mi fa fiorire nell’amore, ciò che fa fiorire la vita, mia e degli altri.

Siamo sollecitati a decidere per la nostra via personale. Non basta fare semplicemente quello che fanno gli altri, andare avanti seguendo la corrente. Gesù usa l’immagine della porta stretta: è stretta, perchè non è per tutti, è per me, solo, e sta a me entrarci. È necessaria la decisione di vivere davvero la mia vita e di percorrere la mia strada, che mi porta alla vita, alla libertà e all’apertura e sulla quale potrò portare frutto per gli altri. “Chi non si mette sulla strada individuale e unica che Dio gli ha assegnato, commette il torto di vivere senza una relazione con il proprio nocciolo interiore” (Grün).

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Gesù si compiace di mostrarmi l’unico cammino che porta a questa fornace Divina: questo cammino è l’abbandono del bambino che si addormenta senza timore tra le braccia di suo Padre … “Se qualcuno è piccolissimo, venga a me” ha detto lo Spirito Santo per bocca di Salomone e questo medesimo Spirito d’Amore ha detto anche che “Ai piccoli è concessa misericordia”. In nome suo, il profeta Isaia ci rivela che nell’ultimo giorno “Il Signore condurrà il suo gregge al pascolo, radunerà gli agnellini e se li stringerà al seno”; e come se tutte queste promesse non bastassero,, lo stesso profeta il cui sguardo ispirato si immergeva già nelle profondità eterne esclama in nome del Signore: “Come una madre accarezza suo figlio, così io vi consolerò, vi porterò in braccio e vi accarezzerò sulle mie ginocchia”. Dopo un simile linguaggio, non c’è altro che tacere, e piangere di riconoscenza e amore. (242. Manoscritti Autobiografici).

Cosa evoca la parola abbandono? Può evocare esperienze negative o positive che hanno bisogno di essere determinate.  La parola è di origine francese, abbonda nella narrativa francese, in ciò che Teresina legge. Ab – bandonab indica scissione e separazione, bandon significa bando, concorso. Il senso di questa parola è separazione da un oggetto quando si mette all’asta. Mettere al bando: separare qualcosa per indicarla pubblicamente, può essere un oggetto, una persona. All’asta si mettono cose da cui ci si vuole separare definitivamente, perchè per noi ormai non hanno valore. Abbandonare un oggetto è un’azione irreversebile. Qualcosa viene ceduto senza l’intenzione di rientrarne in possesso, senza preoccuparsi della sua sorte: non importa chi l’acquista nè se viene svenduto. Ciò è molto forte se si pensa a scelte, persone, situazioni di vita esistenziali. Abbandonare una carriera, un posto di lavoro, una vocazione, il sacerdozio, il marito, i figli, un anziano, il tuo popolo, la tua terra. L’idea è che l’abbandono sia qualcosa di terribile, spesso l’abbandono non è voluto, è causato dalla guerra, dal dramma. Tutto ciò genera un’idea di abbandono come qualcosa di negativo, doloroso. Con tutto ciò ci dobbiamo fare i conti. Abbiamo molta sensibilità quando veniamo abbandonati, un po’ meno quando siamo noi ad abbandonare, ciò richiama la nostra responsabilità. Nelle scelte è naturale abbandonare qualcuno o qualcosa, e si può essere un po’ maldestri e magari far soffrire nostro malgrado qualcuno, accorgendoci che le scelte a volte non sono semplici. Ci accorgiamo che abbandonati, abbandoniamo. Facci pace con questa cosa: anche tu abbandoni, abbandonerai. L’abbandono dev’essere evangelizzato, dietro c’è il tema esistenziale della solitudine. L’abbandono ha bisogno di ricevere la luce del Vangelo, a partire anche da ciò che è squisitamente umano. L’esperienza tragica dell’abbandono è anche una delle esperienze più subilmi della vita umana: l’abbandono degli amanti, tra le bracci del partner, l’abbandono dell’offerta totale di sè della nudità, l’unione dei corpi è abbandono l’uno nella vita dell’altro. Mi consegno a te, mi affido a te. Questa esperienza d’amore cui tutti aneliamo, che posso vivere in un rapporto intimo, o in un abbraccio. Con Teresina abbiamo l’abbandono del bambino. Da una parte l’abbandono tragico, dall’altra l’abbandono intimo. E tutti abbiamo fatto questa esperienza. In Teresina, nei suoi Scritti Autobiografici, vediamo tutta una storia d’abbandono. S. Margherita Redi parla di abbandonamento, e in una lettera, in cui è spossata dalla malattia, scrive: sento in me questo abbandonamento. Fiducia sconfinata, alla cieca, in Dio, come una bambina, o come una sposa. Amore sponsale o infanzia spirituale sono le due porte per bussare forte alle porte del Padre. Teresina n.242 degli Scritti Autobiografici. Dio è un distributore sempre aperto di grazia e domanda alla tua libertà di essere responsoriale. La controparte di questa erogazione continua di grazia è l’abbandono. “Ora non ho più alcun desiderio, se non di amare Gesù alla follia” – unico desiderio per Teresina è amare Gesù alla follia. “È l’amore che mi interessa, è l’amore solo che mi attira”. Come? “Ora è solo l’abbandono che mi guida. Non ho altra bussola”. Tutto il mio esercizio è nell’amare, per amare, per perseverare ad amare, anche chi non ci ricambia. L’amore sa trarre profitto da tutto, e lascia un’umile profonda pace nel cuore. (n.253 Manoscritti autobiografici). Abbandono nella volontà di un altro, a qualcuno che non ci lascerà e che ci fa trarre profitto anche dal dolore e dalla sofferenza, dandoci suo Figlio, Gesù. Lc 23,46 Padre, nelle tue mani, consegno il mio spirito – icona dell’abbandono nelle braccia del Padre.

Appunti dall’incontro di Padre Gabriele Morra

Arcetri 12 novembre 202312

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Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio? (1Cor6,19)

San Paolo con la sua domanda ci ricorda la nostra condizione di battezzato. Diventando Figli di Dio per adozione, noi abbiamo ricevuto lo Spirito Santo. Questo Spirito – come scrive André Louf nel suo libro “L’uomo interiore”

è uno Spirito continuamente in preghiera, che grida instancabilmente nei nostri cuori: “Abba, Padre!” (Rm8,15)

Sembra una cosa scontata, ma non lo è.  Si tratta di ri-scoprire la ricchezza intima che portiamo nel nostro mondo interiore, il nostro tesoro profondo, ovvero Lo Spirito Santo che abita nei nostri cuori.

Spesso siamo preoccupati di valutare la nostra preghiera e ci dimentichiamo che lo Spirito che abita in noi in ogni momento veglia e prega per noi e prega in noi. Ciò non deve condurre ad abbassare o diminuire la propria vita di preghiera. La consapevolezza di questo dono accende un fuoco dentro il cuore per un impegno fedele ai momenti personali della preghiera quotidiana.

I maestri di preghiera consigliano di fissare dei tempi precisi per la preghiera personale nella giornata, per poter entrare nel luogo segreto del cuore, nel quale il colloquio con Dio non viene mai interrotto. Dobbiamo ammettere che è impegnativo tagliarsi dei tempi per la preghiera quotidiana personale che non sia un’aggiunta o un ulteriore impegno da incastrare nella lista delle cose da fare. La preghiera non è un dovere e nemmeno preghiamo per sentirci migliori, noi preghiamo perché vogliamo imitare il Maestro in ogni cosa, anche nella preghiera. Bastano cinque minuti ogni giorno. L’importante è scegliere il momento migliore in cui riesco a stare da solo e sono totalmente concentrato. Occorre fedeltà al tempo che fisso, niente meno e niente di più. Piano piano mi abituo a questo ritmo spirituale nella giornata e la preghiera diventa per me lo spazio giornaliero in cui posso rileggere e orientare la mia vita verso il Padre.

È utile trovare un Santo o una Santa che mi accompagni in questo cammino di preghiera. S. Teresa di Gesù direbbe di mettersi nella compagnia dei buoni, infatti sono uomini e donne che hanno attraversato già una vita che è diventata profondamente e pienamente preghiera. Chiediamo la loro intercessione e il loro aiuto per imparare a metterci alla presenza di Dio.

La domanda è: come faccio con le distrazioni? Sii più furbo di ogni distrazione e fa di ogni distrazione una materia del tuo colloquio con Dio, ovvero: se ti ritorna in mente un evento o una situazione, parla con il Signore di questa cosa e raccontagli ciò che ti ronza in testa e così non sei distratto dalla preghiera ma sei pienamente in intimo contatto con Lui.

Dunque il nostro terzo passo consiste nel trovare un tempo preciso durante la giornata per un colloquio intimo con il Signore, impegnandoci a conservarlo con fedeltà e lasciandoci accompagnare dai Santi.

sr Dina della Santa Famiglia

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Siamo arrivati al quarto step del nostro cammino spirituale, e come parlare del cammino interiore senza parlare della andariega de Dios ovvero la “vagabonda” di Dio: Santa Teresa di Gesù? Per Teresa la vita è un cammino continuo e il suo motto era: “Camminiamo insieme Signore” (C 26,6)! La preghiera è un cammino che “porta al cielo” (V 8,5) e la santità è un cammino di perfezione. Lei stessa è stata una donna sempre in cammino, una sposa che lavora e si consuma per il suo Sposo. Era in cammino per Cristo e per la sua Chiesa.

Non troveremo un’altra buona maestra e guida migliore di Teresa! Abbiamo scelto una delle opere meravigliose che ha lasciato al Carmelo e alla Chiesa: il Castello Interiore. È un vero capolavoro, parla del cammino spirituale del cristiano e presenta un itinerario verso il centro dell’anima dove Dio dimora, quindi ci porta a un livello molto profondo di interiorità, ma anche ci proietta verso una logica di “estroversione”, cioè di apertura verso l’esterno, verso l’amore per il prossimo.

Teresa, nel suo libro, propone un percorso di crescita descritto in sette “dimore” o “mansioni” o “stanze” , collocate nell’uomo interiore. Non si tratta certo di luoghi, ma piuttosto di “modi di essere”. Teresa lancia una proposta di viaggio, per cui è “Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio” (Sal 83,6), partendo dalla realtà umana segnata dal peccato fino a raggiungere la piena trasformazione della persona in Cristo, ovvero la settima stanza. Non è una meta irraggiungibile, perché è un dono di Dio e perché l’ha vissuto Teresa stessa sulla propria pelle.

Il castello di cui parla Teresa è fondato su tre cardini molto importanti ricavati dalla Sacra Scrittura:

1)    Nel castello ci sono molte stanze “Nella casa del Padre mio ci son molte dimore.” (Gv14,2)

2)     L’anima del giusto è un paradiso dove Lui pone le sue delizie; (Prov. 8,31)

3)    Dio ci creò a sua immagine; «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza.” (Gen 1,26)

Teresa ci regala la sua esperienza personale ed intima del Castello, condivide con noi la sua realtà interiore per poter portare anche noi a questa intimità con il Signore.

Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo, nel quale vi siano molte mansioni, come molte ve ne sono in cielo.” (M1,1)

Teresa ci introduce in questo viaggio interiore a partire da una grande stima per la persona umana e parla in positivo “della bellezza e dignità delle nostre anime”. Infatti l’uomo è l’essere più simile a Dio: non solo è fatto a sua immagine e somiglianza, ma ha anche la capacità di contenerlo. Non solo ha la vocazione alla relazione con Dio, alla comunione con Lui, ma il suo stesso essere è strutturato come “capace di Dio”.

Nel primo capitolo del libro, Teresa scrive:

“… dovete sapere che vi è una grande differenza tra un modo di essere e un altro, perché molte anime stanno soltanto nei dintorni, là dove sostano le guardie, senza curarsi di andare più innanzi, né sapere cosa si racchiuda in quella splendida dimora, né chi l’abiti, né quali appartamenti contenga.” (M1,5)

Teresa sa – per esperienza – che l’uomo può perdersi e svuotarsi da solo e invece di prendere contatto con la propria interiorità, sta sempre altrove, disperdendosi all’esterno e perdendo la propria identità. Per questo non basta sapere che il castello esiste, vale la pena entrare.

Ma come posso entrare nel mio castello?  La risposta ce la dà Teresa: “La porta per entrare in questo castello è l’orazione e la meditazione.” (M1,7)

Sembra una risposta strana e a sproposito: che c’entra la preghiera con l’ingresso nel mio castello? In realtà, il castello è uno spazio sacro, è un luogo santo perché lì abita il Santo. Quindi per entrarvi bisogna mettersi in relazione con Dio, con colui che abita questo edificio, ovvero parlare a tu per tu con Lui, il Dolce Ospite dell’anima, ovvero pregare.

Le prime dimore del castello sono il luogo della conversione. Effettivamente nel primo capitolo di queste dimore, Teresa ci offre una visione positiva della nostra persona e ci consiglia di convertire il nostro sguardo su noi stessi, né troppo alto che ci porterebbe ad essere orgogliosi né troppo basso, che farebbe di noi persone depresse.

Entrare in queste dimore è un po’ come prendere coscienza della nostra umanità, fragilità, luci e ombre della nostra persona; e insieme a tutto questo la certezza di essere chiamati al rapporto personale con Dio.

Se vuoi entrare nelle prime dimore/mansioni, cammina con Gesù fissando il tuo sguardo su di Lui senza voltarti indietro. Confida in Lui. Sarà Lui, Gesù, che ti accompagna nel tuo varcare la soglia della conoscenza di te stesso. E ciò può avvenire soltanto dando avvio ad un dialogo continuo con Lui come con un amico.

Sr Dina della Santa Famiglia

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URGENZA: farti conoscere ed amare!

Lavoro, amici, studio, preghiera, sport, salute, vocazione, svago, famiglia. Cosa metti per prima nella tua vita? Qual è l’ordine delle tue urgenze?

Non è possibile generalizzare e trovare un ordine che valga per tutti. L’urgenza è diversa per ciascuno. Ma allora, cosa significa “urgente”?

Urgente viene dal verbo urgere, che non ha il participio passato. Si usa il participio presente: urgente. Non è un caso: indica infatti il qui ed ora, un’impellenza. Si usa anche per un’affermazione categorica: urge organizzare il lavoro, urgono medicinali per la popolazione. Si esprime una necessità. E si tratta di qualcosa di esterno. In realtà, si tratta anche di una realtà interna: un sentimento, un senso interno di urgenza, che proviamo in modo connesso al senso di perdere qualcosa di importante,  di non riuscire ad ottenerlo. Temo di perdere una relazione importante, mi do da fare, per recuperarla. Ho un esame, ho paura di non passarlo, per cui lo metto in primo piano e studio. Fa scattare in noi un impulso, una spinta propulsiva motivazionale. Positiva o negativa? È un’energia positiva, perchè è un’energia motivazionale, per la vita. Lo stato/l’energia della motivazione ci mette in moto, in azione. Definire qualcosa più o meno urgente, significa riconoscere in quella cosa un’importanza maggiore rispetto ad altre, un diritto di precedenza, tanto che quella cosa che definisco “urgente” assorbisce le mie forze, il mio tempo, la mia energia. I motivi dell’urgenza possono essere esterni: sono motivi che si impongono, e poi ci sono motivi interni legati alla mia persona, al mio mondo psichico-affettivo o valoriale, legati alla mia storia e personalità. Il mondo del mercato induce in noi l’urgenza di possedere alcuni oggetti. La società può indurci alcune urgenze relazionali. C’è un mondo di urgenze in cui districarsi.

Chiediamoci:

  1. è possibile un discernimento tra le urgenze?(dimmi che urgenze hai, e ti dirò chi sei)
  2. che rapporto c’è tra urgenza e tempo? Tutte le urgenze richiedono necessariamente di essere risolte subito?
  3. c’è un criterio di vita che ci guidi in questo mondo di urgenze che si affacciano continuamente nella nostra vita?

 

1.

È POSSIBILE UN DISCERNIMENTO TRA LE URGENZE?

A Roma, quando si viaggia sul grande raccordo anulare, si ha a volte l’impressione di girarci intorno senza meta. Guida guida, ma non sai dove stai andando.

Chi ha una vita di fede, la direzione ce l’ha, e coinvoglia a quell’obiettivo tutti i suoi sforzi, e in questa prospettiva organizza soste, caffè ecc.

L’urgenza è arrivare. C’è un’urgenza con la U maiuscola, poi ci sono quelle secondarie: il caffè per non addormentarmi sul volante, o la sosta dal benzinaio per non restare a secco a metà strada. Non tutte le urgenze hanno la stessa valenza in termini di importanza. Quando c’è disordine in termini di priorità, ci si disorienta e si rischia di perdere la meta. Ci deve essere una correlazione con l’obiettivo principale.

Ma Dio, ha delle urgenze?

Mt6,33 – Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia.

Il “prima” dice urgenza, priorità.

Guardiamo il Padre Nostro nel Vangelo di Luca (Lc11,2-4), è una scuola di urgenze: sia santificato il tuo nome e venga il tuo Regno! E poi ci sono delle urgenze che si fanno domanda: dacci il pane quotidiano, perdonaci, non ci indurre in tentazione …

Queste sono le urgenze di Cristo. Ma ciò apre il problema del tempo, perchè non vi è in ciò nulla di risolvibile “a breve”. Qual è il tempo?

2.

CHE RAPPORTO C’È TRA URGENZA E TEMPO? TUTTE LE URGENZE RICHIEDONO NECESSARIAMENTE DI ESSERE RISOLTE SUBITO?

Ci sono urgenze da risolvere subito. Altre richiedono che il qui ed ora si dilati nel tempo, a tutta la vita.

Ci sono degli interventi che Gesù fa SUBITO. “La febbre la lascio subito”, “subito fu risanato”, “e subito, lasciato tutto, lo seguirono”, “ecco ora il momento favorevole”.

Poi ci sono una serie di episodi in cui Gesù reagisce all’urgenza in modo diverso: durante la tempesta nel mare, dorme! Alla morte di Lazzaro, arriva tardi. Nell’episodio della figlia di Giairo, si ferma nel frattempo a guarire l’emoroissa ed esclama: “continua ad avere fede!”.

L’urgenza non ammette rimandi. Ma di fronte alle urgenze esistenziali, di Dio, vediamo che di sicuro richiedono l’ora, ma vediamo anche che sono vere e attuali anche domani e in ogni giorno della nostra vita. Per le grandi urgenze, la fretta non aiuta, perchè vanno perseguite ogni giorno, tutti i giorni, come sempre attuali. “Non ho che l’oggi per amarti!” dice Teresina: è vero sempre.

Il quotidiano/il presente contiene in sè la meta, come il seme ha in sè la quercia che sarà. “Ogni piccola azione è un avvenimento immenso in cui ci è dato il paradiso, e in cui possiamo dare il Paradiso. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato e battere a macchina … tutto questo  non è che la scorza di una realtà splendida: l’incontro dell’anima con Dio, incontro ogni minuto rinnovato, ogni minuto che diventa, nella grazia, sempre più bello per il proprio Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Una informazione? …Eccola, è Dio che viene ad amarci. È l’ora di mettersi a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare. (M. Delbrel).

Come vivere l’urgenza non come fretta, ma come qui ed ora attuale per tutta la vita? È l’ECCOMI, ci sono in modo pieno e totale in ogni momento e situazione della mia quotidianità.

 

3.

C’È UN CRITERIO DI VITA CHE CI GUIDI IN QUESTO MONDO DI URGENZE CHE SI AFFACCIANO CONTINUAMENTE NELLA NOSTRA VITA?

Il criterio è la carità. La più insistente domanda della vita è: cosa fate voi per gli altri? (M. L. King).

“Il Vangelo è una fonte zampillante di urgenze. Quando si parla di urgenza, significa che non si può perdere un solo istante, che bisogna affrontare la situazione, che si è spinti a decidere, che qualcosa sta per cambiare. L’urgenza si presenta nella storia della libertà. Dal momento in cui c’è stato l’evento – fondatore di Gesù Cristo, urge sperare e quindi relativizzare tutte le nostre disperazioni, a cominciare dalla disperazione legata alla morte, la quale non ha più l’ultima parola. Urge prendere Dio sul serio… Urge condurre la propria vita con serietà… Urge condividere…Urge amarsi, urge perdonarsi, urge riconciliarsi…Urge testimoniare tutto il già presente: è l’avvenire della gioia, per tutti gli uomini!” (P.A. Liege, Il tempo della sfida. I cristiano alla prova. Trasmettere speranza.)

Le urgenze di Gesù non sono mai autocentrate, ma sono sempre PER:  per il Padre, per l’uomo.

2Cor5,14-15 Caritas Christi urget nos. La carità di Cristo ci spinge/ci sostiene/ci avvolge.

Uno è morto PER tutti (…), vivere PER colui che è morto PER loro…

L’urgenza per il discepolo è una vita convertita al PER. Si tratta di vivere una vita che viene convertita quotidinamente, che qui ed ora si lascia convertire all’orizzonte di Cristo: Dio Padre, il suo regno, l’umanità, l’uomo. L’urgenza per il credente è la COMUNIONE.

Benedetto XVI in Caritas in veritate: “L’urgenza è inscritta non solo nelle cose, non deriva soltanto dall’incalzare degli avvenimenti e dei problemi, ma anche dalla stessa posta in palio: la realizzazione di un’autentica fraternità.

La rilevanza di questo obiettivo è tale da esigere la nostra apertura a capirlo fino in fondo e a mobilitarci in concreto con il “cuore”, per far evolvere gli attuali processi economici e sociali verso esiti pienamente umani”.

Appunti dall’incontro di sr Emanuela Giordano

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La passione contiene tante altre passioni, lo vediamo dal termine stesso, la cui radice è come uno scrigno che porta in sè più tesori. Guardiamo infatti ai tre significati principali che sono racchiusi in questa parola.

  1. Patire.

Siamo abituati a una dimensione eroica del dolore. Cry of pain. è un dolore che umilia, che schiaccia al suolo. Dolore di cui non vedo la fine, non vedo la dimensione redentiva, nulla di eroico, è dolore che ti annienta. Non mi sento di reagire. Oscar Wilde: dov’è il dolore, là il suolo è sacro. è una dimensione che ti schiaccia, e che ha in sè una dimensione di sacralità, proprio perchè in qualche modo è un luogo intoccabile. Dolore lancinante di cui non si vede nulla di positivo.

  1. Amore.

Siamo al lato opposto dello spettro: amore che ti travolge. Non ragiono più, non penso più. Il bacio di Hayez. La ragazza sembra proprio essere trascinata, passiva. L’amore è travolgente, ti trascina. Diventa totalizzante, assoluto. Dimensione dell’eros, dell’amore che vuole per sè: ti amo – ti voglio.

  1. Pazienza.

La radice è la stessa, patior in latino. Ci si ricollega alla dimensione del dolore. Ma se attendi, significa che lo desideri, per cui ci si ricollegga anche all’amore. C’è nella pazienza il seme di chi vuole e al contempo soffre perchè non ha. La passeggiata della vedova. La donna attende il marito che non tornerà. Rende l’idea delle ore che passano, la donna si fonde con le colonne della balaustra, si fonde con il luogo dell’attesa.

C’è un elemento di giuntura. Ecco il Cristo di San Giovanni della Croce. Qui questi tre aspetti si riuniscono e diventano uno. La passione di Cristo li unisce: è sofferenza, è dolore, è morte è schiacciante. è un atto d’amore. La croce non è stata scelta, ma comunque accolta, e accolta per amore. Per amore del Padre e degli uomini. è atto di amore assoluto. il dolore schiacciante e senza senso viene accolto, e così diviene atto di amore. Il dolore da una parte, l’amore dall’altra: Cristo è al centro a fare d’unione.

Pregnant: la Madonna è davanti al sepolcro chiuso. È la dimensione dell’attesa nei giorni del sepolcro. Il sepolcro sembra la fine. La Madonna però non perde la speranza e continua ad attendere, nella fede del compimento di ciò che abbiamo visto finora. Non è un’attesa fine a se stessa, ma punta alla Pasqua, alla Resurrezione. L’essere cristiani è il vivere alla luce della Resurrezione (Bonhoffer). Pazienza che ha bisogno di essere illuminata dall’amore, deve divenire urgenza di amare.

Appunti dall’incontro tenuto da Giacomo Minnini

Madeleine Delbrel, La gioia di credere, Gribaudi

La passione, la nostra passione, sì, noi l’attendiamo. Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che ne scocchi l’ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover essere consumati. Come un filo di lana tagliato dalle forbici, così noi dobbiamo essere separati. Come un giovane animale che viene sgozzato, così noi dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l’attendiamo. Noi l’attendiamo, ed essa non viene.

Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria.

Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
E’ l’autobus che passa affollato;
il latte che trabocca,
gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gli invitati che nostro marito porta in casa e quell’amico che, proprio lui, non viene;
E’ il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
E’ la voglia di tacere e il dover parlare,
E’ la voglia di parlare e la necessità  di tacere;
E’ voler uscire quando si è chiusi
e rimanere in casa quando bisogna uscire;
E’ il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
E’ il disgusto della nostra parte quotidiana,
E’ il desiderio febbrile di tutto quanto non ci appartiene.

Così vengono le nostre pazienze, in ranghi serrati o in fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando – per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci son rami che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci sono fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l’indossano.
Ogni riscattto è un martirio, ma non ogni martirio èsanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.
E’ la passione delle pazienze.

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Prima di procedere oltre nel Castello Interiore, Teresa scrive un secondo capitolo in cui dà indicazioni per navigare meglio all’interno delle prime dimore.

All’inizio, Teresa ci spiega con molta lucidità lo stato dell’anima che si trova in peccato mortale, sottolineando il disordine che esso lascia nell’uomo e nella sua interiorità. Le interessa molto evidenziare che lo stato di peccato rovina il rapporto intimo con Dio, perciò ci consiglia di essere molto attenti e vigilanti!

Tuttavia, nonostante l’uomo a causa del peccato si trovi nella tenebra oscura, Teresa assicura che il Sole splendente continua ad abitare al centro dell’anima, che così non perde il suo splendore, né la sua bellezza: “Il Sole splendente … continua a star nell’anima, e non vi è nulla che lo possa scolorire … Se sopra un cristallo esposto al sole si mette un panno molto scuro, è evidente che, anche se il sole batte su di esso, la sua luce non avrà nessun effetto sul cristallo” (1 M, 2,3).

Proprio per questo, il nostro peccato e le nostre mancanze non ci dovrebbero spaventare; come cantiamo nell’Inno dei Vespri di Quaresima: “Grande è il nostro peccato, ma più grande è il tuo amore”. Infatti la misericordia di Dio è più forte di ogni peccato.

Ciò non vuol dire che possiamo vivere in modo mediocre e prendere con leggerezza la nostra natura peccatrice. Teresa ci insegna a non aver paura della nostra fragile umanità, ma piuttosto ad avere sano timore di offendere Dio con il peccato. Ci esorta ad invocare il Suo aiuto per essere liberati dal giogo della conseguenza del peccato originale, perché “Senza il suo aiuto non si può proprio far nulla” (1M, 2,5).

L’obiettivo della Santa in queste prime Mansioni è da una parte aiutare le sue sorelle a percepirsi create ad immagine di Dio ed ammirare la grandezza della propria dignità e bellezza, e dall’altra l’essere consapevoli della propria natura segnata dalle conseguenze del peccato originale; soprattutto, essere grate di ciò che Dio opera in loro. Aveva molto a cuore di insegnare loro a guardarsi con uno sguardo oggettivo, sano e concreto.

Uno dei temi più importanti in queste prime dimore è la conoscenza di sé. Sembra un impegno specifico, che inizia in queste stanze, ma che si dovrà mantenere costantemente attivo fino all’ultima mansione.

Il conoscimento di sé di cui parla Teresa non significa compiere un’analisi più o meno psicologica, bensì è il guardarsi sotto lo sguardo di Dio, a partire dalla Sua chiamata ad una comunione intima. Infatti aggiunge subito che l’uomo conosce se stesso veramente solo quando conosce Dio: «Mai finiremo di conoscerci se non procuriamo di conoscere Dio. Guardando la sua grandezza, conosceremo la nostra bassezza, guardando la sua purezza, conosceremo la nostra sozzura, considerando la sua umiltà, conosceremo quanto lontani siamo dall’essere umili» (1M,2,9). Conoscere Dio significa rispondere alla sua chiamata e alla comunione con Lui, in Cristo (cf. Gaudium et Spes, 19). E a proposito della conoscenza di sé, fa riferimento all’umiltà, e precisamente all’umiltà vera di Cristo (cf. Fil 2,6-8) esortando a “camminare nella verità davanti a Lui” (V 40,3).

Uno dei consigli pratici che ella dà per questo cammino della verità è: “Fissare gli occhi su Cristo, nostro bene, e sui suoi santi: da essi impareremo la vera umiltà, la nostra intelligenza ne resterà nobilitata e la conoscenza di noi stessi non ci renderà vili e negligenti” (1M, 2,11). Essendo ancora nelle prime dimore, si tratta di un procedere progressivo verso la Luce, all’interno del Castello. “Non giunge ancora quasi nulla della luce che emana dal palazzo dove abita il Re. Sebbene le dimore non siano così nere e tenebrose come quando l’anima è in peccato, la luce ne è in qualche modo offuscata, tanto che chi si trova lì non può vederla … È come se uno entrasse in una sala inondata di sole, avendo gli occhi così pieni di terra da non poterli quasi aprire” (1M, 2,14).

Teresa ci invita a metterci a nudo davanti al Signore, convinta che solo alla luce di Dio noi vediamo la luce di noi stessi e possiamo toccare la nostra realtà interiore, compresi gli aspetti oscuri che non ci piacciono, che non vorremmo, che non accettiamo e cerchiamo di mascherare e negare. Questi li rappresenta come animali e serpenti pericolosi che ingannano l’anima a procedere nel cammino verso il palazzo reale, quindi ci spinge a combattere contro di loro e a non cedere davanti alla tentazione di evadere da questo contatto, fuggendo e lasciando il proprio edificio interiore. Questo ci rimanda al Vangelo delle Tentazioni secondo Marco (Mc 1,12-15), che presenta Gesù che stava con le belve selvatiche, immagine di un’umanità riconciliata con sé stessa e modello dell’uomo che fa pace con la propria fragilità. Solo in questo modo “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv8,32).

Dunque il quinto step consiste nel prendersi cura del proprio rapporto con il Signore in questo modo:

–        affronto le bestie velenose che impediscono il mio cammino verso il Re. Come? Nel silenzio della preghiera ne prendo consapevolezza, do loro il giusto nome

–        Non scappo. Chiedo l’aiuto al Signore, la grazia della determinazione. Invoco lo Spirito Santo, affinché mi dia consolazione

–        Se mi sento solo in questo cammino interiore, se provo scoraggiamento, paura o desolazione in questo passo verso la stanza principale, riporto il mio pensiero a Dio. Rinnovo la certezza che Egli è presente nella mia vita. Rimango in questa consapevolezza. Può aiutarmi ripetere le parole di un salmo, come ad esempio: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”, oppure una giaculatoria: “Tu Signore sei la mia forza”, oppure “Niente ti turbi, niente ti spaventi” o semplicemente il nome di Gesù, o il nome di Padre, Abbà.

Sr Dina della Santa Famiglia

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Con le Prime Dimore abbiamo intrapreso il nostro cammino spirituale e abbiamo iniziato a ritagliarci dei momenti intimi con il Signore e a pregare.

Teresa ci ha spinto a prendere contatto con la nostra interiorità, e ci ha chiamati a prendere coscienza della nostra umanità, per imparare a guardarci alla luce di Dio.

Ricchi di questa profonda esperienza, possiamo oltrepassare la soglia delle Seconde Dimore. Teresa, da vera madre e maestra, ci accompagna con una particolare raccomandazione: “A chi ha cominciato a rientrare in se stesso, chiedo che la prospettiva della lotta non lo faccia tornare indietro.” (2M 1,9)

Entrando nelle Seconde Dimore, portiamo infatti ancora dentro di noi la condizione delle Prime, ovvero la pesantezza della presenza di “bestie velenose e pericolose” che ostacolano il nostro cammino verso Dio. Tuttavia qualcosa di essenziale accade, cioè l’anima inizia a sentire la voce di Dio: “Essendosi avvicinata all’appartamento dei Sua Maestà, ne sente gli inviti e capisce d’avere in Lui un buon vicino, grande in bontà e misericordia.” (2M1,2)

È una vera lotta! Senti che Dio ti chiama e ti invita in vari modi a stare con Lui e ad arrivare alla Stanza Centrale, ma al contempo ti scontri con la tua incapacità a seguire la sua via: ti trovi infatti ancora ingolfato nei tuoi beni, le tue doti, i tuoi rapporti, in generale in tutte quelle cose che nella tua vita si sostituiscono a Dio: sono i tuoi idoli, ai quali sei molto attaccato, perché da loro cerchi vita e felicità. Questa è l’idolatria che ti stravolge, ti succhia la vita e ti allontana dal tuo cammino verso Dio. Comunque, siamo sicuri che “Dio non smette di chiamarci affinché andiamo a Lui.”

In questa lotta, combatto contando non sulle mie capacità, ma sul Suo Aiuto che non viene mai meno e con la sicurezza che Egli è il mio alleato, Lui è con me e non mi abbandona mai. Nelle Seconde Dimore imparo a riconoscere la strategia del nemico che ha lo scopo di ingannarmi, facendoci credere che non vale la pena seguire Dio e rispondere al suo invito.

È molto evidente il contrasto tra ciò che Dio ci invita a fare e ciò che noi possiamo fare per aderire a Lui. E’ proprio un bivio, e infatti ci sono due strade possibili:

●      una è quella dello scoraggiamento, della depressione: toccando con mano la propria incapacità di rispondere all’invito di Dio, si scivola in sentimenti di disgusto e di frustrazione. Si assumono atteggiamenti e parole di sfiducia, di rabbia e di sconforto, sensi di colpa … Insomma, la tentazione dell’autoescludersi dalla possibilità di proseguire il cammino. E si arriva infine ad abbandonare la preghiera

●      l’altra strada è quella di soffermarsi con apertura e gratitudine sulla dolcezza che ci viene dall’invito di Dio: “È così dolce la Sua Voce …” (2M1,2). Drizzare dunque le proprie antenne per captare ogni segnale che viene, e non disprezzare più nulla di ciò che può trasmetterci l’invito di Dio; tutto, infatti, parla di Lui. Posso finalmente essere sensibile al Signore e soprattutto in piena connessione con Lui. Ogni attimo della mia giornata diventa un’occasione di comunione con Dio.

La domanda, allora, diventa: come possiamo sentire la voce di Dio? Egli ci viene incontro e ci parla in diversi modi servendosi di mille circostanze e occasioni, perfino di quelle che noi saremmo tentati di sottovalutare o scartare. Teresa dice: Dio ci parla “attraverso le parole di certe buone persone, nelle prediche, nelle buone letture e in tutti i modi di cui Dio si serve per farci sentire le sue chiamate: prove, malattia e certe verità che egli ci insegna nei momenti in cui stiamo in orazione” (2M1,3)

Durante la mia preghiera, quindi, in questo sesto step, cerco di coltivare i sentimenti del figlio, “il figlio prodigo”, e di non perdermi dietro il cibo dei porci abbandonando la mia casa e il mio castello; decido di stare alla presenza di mio Padre in ogni attimo della giornata, accogliendo ogni suo invito per unirmi a Lui e “fare TUTTO nel nome del Signore Gesù” (cf Col3,17).

Ogni volta che ti viene la tentazione di pensare o riflettere sulla tua incapacità nel rispondere all’invito di Dio, ricordati che non sei da solo, il Signore è il tuo vero alleato e Lui non ti abbandona mai. Cerca sempre di entrare in Lui parlandogli come ad un amico e ascolta ciò che vuole dirti con attenzione e cura. 

Sr Dina della Santa Famiglia

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Siamo al centro delle Terze Mansioni del Castello Interiore. In queste stanze Teresa parla a chi ha deciso di mettersi in cammino e ha superato le seconde dimore attraversando il combattimento e la lotta contro le cose e i rapporti che vogliono prendere il posto di Dio, Ella dice: “A coloro che per la misericordia di Dio sono usciti vittoriosi da queste lotte e che, aiutati dalla perseveranza, sono entrati nelle terze mansioni, che cosa diremo, se non: Beato l’uomo che teme il Signore?” (3M 1).

Infatti è “beato” colui che ha superato la lotta con determinazione e con la decisione di non uscire più dal proprio “Castello interiore”; è felice chi è fortemente intenzionato a non interrompere mai più il rapporto d’amore che lo lega al suo Dio. Si tratta di persone ormai decise sulla via del bene, le quali “per nulla al mondo commetterebbero un solo peccato (mortale) e, molte di esse, neppure un peccato veniale avvertito” (3M 1,5 e 1,69).

Le Terze Dimore rappresentano, per moltissime persone di fede, il luogo in cui abiteranno quasi tutta la vita, o nel quale trascorreranno lunghi anni. Teresa chiama queste persone “eletti di Dio”.

Teresa parla di “timore”, non di qualunque timore bensì del “Timore di Dio”, che è dono dello Spirito Santo: esso non consiste nell’avere paura di Dio, ma nella paura di perdere il suo amore. È il timore di coloro che hanno incontrato Dio come l’amore della loro vita e non lo vogliono perdere, di chi teme di sciupare il rapporto personale con il Signore.

“Da quando ho cominciato a parlare di queste mansioni, l’immagine del giovane ricco (di cui parla il Vangelo di Mc10:17-22) mi è sempre dinanzi, perché noi ci troviamo nelle sue medesime condizioni, né più né meno” (3M 1,6).

Ecco l’immagine dell’anima che abita Le Terze Dimore, consegnataci da Teresa: il “tale” che incontra Gesù e gli chiede ansiosamente che cosa deva fare per avere in eredità la vita eterna. Si tratta di un uomo che si è molto impegnato nella sua vita, un osservante, rispettoso delle regole, e che tuttavia è ancora inquieto, in ricerca di una ricetta per la vita eterna.

Teresa annota che giungendo alle soglie delle Terze Dimore, ciascuno di noi può essere come questo uomo, può pensare cioè che la felicità, la vita piena, siano un diritto da conquistare con il proprio lavoro, il proprio impegno. Quest’uomo del Vangelo, infatti, si dimostra disponibile ad assumere un impegno ancora maggiore pur di meritare la vita eterna; quando però Gesù gli indica ciò che gli manca, ovvero “seguire Gesù”, egli se ne va rattristato.

È il rischio che possiamo incontrare in queste Dimore: guardare alle nostre opere, anche ai nostri atti virtuosi, come alla garanzia della nostra salvezza, in altre parole incastrarci nel pensare al rapporto con Dio secondo la logica del mercato, del contraccambio. Teresa raccomanda: “L’amore non deve essere fabbricato nella nostra fantasia, ma provato con opere; non pensare, però, che ci sia bisogno delle nostre opere, ma della determinazione della nostra volontà (3M 1,7). […] Perciò, se da un lato è essenziale che l’anima compia le opere dell’amore, ancora più essenziale è che ella non si soffermi su di esse. Andate oltre le vostre piccole opere” (3M 1,6).

Il settimo step ci invita dunque a continuare a mantenere l’impegno personale della preghiera non per senso di dovere, o per ottenere un premio finale, ma per amore, e con gratitudine verso un Dio generoso che ci ama fino alla fine.

Suor Dina della Santa Famiglia

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SEGNI: IL SEGNO DELLA CROCE

Fin dagli inizi della nostra storia è il segno di riconoscimento di noi cristiani.

E’ un segno di appartenenza a Qualcuno.

E’ il segno della nostra salvezza.

Sulla croce Gesù ci ha amato e ha dato se stesso per noi.

Sant’ Ambrogio spiega che il segno della croce è un segno di totalità della persona:

Noi facciamo il segno della croce sulla nostra fronte, sul nostro cuore e sulle nostre spalle. Sulla fronte, perché dobbiamo sempre confessare Gesù Cristo; sul nostro cuore, perché dobbiamo sempre amarlo; sulle nostre spalle, perché dobbiamo sempre lavorare per lui.

Penso a quante volte facciamo il segno della croce velocemente e senza accorgerci della sua importanza e del suo significato.

Romano Guardini scrive a proposito:

Quando fai il segno della croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce cosa debba significare. No, un segno della croce giusto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all’altra. Senti come esso ti abbraccio tutto? Raccogliti dunque bene; raccogli in questo segno tutti i pensieri e tutto l’animo tuo, mentre esso si dispiega dalla fronte al petto, da una spalla all’altra. Allora tu lo senti: ti avvolge tutto, corpo ed anima, ti raccoglie, ti consacra, ti santifica.

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SEGNI: BATTERSI IL PETTO

Durante il rito penitenziale all’inizio della Messa, il sacerdote e i fedeli si riconoscono peccatori, confessando con umiltà il proprio peccato e invocando la grazia del perdono e la misericordia del Signore. Imitano il pubblicano che “fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: ‘O Dio, abbi pietà di me peccatore’ ” (Lc 18,13)

Battersi il petto è un gesto che va a colpire la sede del cuore, lo spazio interiore e nascosto dal quale, secondo Gesù stesso, «escono i propositi di male» (cfr. Mc 7, 21).

È un gesto d’umiltà che sta ad indicare la propria interiorità corrotta, ma con il desiderio anche di cambiare, di convertirsi.

Riconoscersi peccatore è il primo gradino per guarire da ogni male causato dal peccato. Battersi il petto manifesta il proprio dolore e l’impegno nella lotta contro il male che ci allontana da Dio.

Romano Guardini, ci insegna che

…dobbiamo compiere bene l’atto. Non toccarci appena le punte delle dita il vestito; il pugno chiuso deve colpire il petto. … Ha da attraversare le porte del nostro mondo interiore e scuoterlo, affinché si desti, apra gli occhi, si converta a Dio. Allora comprendiamo cosa significa… Questo è dunque il significato del battersi il petto: l’uomo vi si desta. Desta il suo mondo interiore, affinché percepisca l’appello di Dio. Si mette dalla parte di Dio e si punisce. Riflessione pertanto, rimorso e conversione.

(tratto da: I santi segni – di Romano Guardini) 

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SEGNI: INGINOCCHIARSI

Inginocchiarsi è uno dei gesti fisici più caratteristici di chi prega. Vediamo tante persone, durante la vita terrena di Gesù – raccontano i Vangeli – che si sono inginocchiati ai suoi piedi; chi chiedeva aiuto o guarigione e chi gli chiedeva perdono perché si sentiva peccatore.

Nel suo libro Introduzione allo spirito della liturgia, Joseph Ratzinger scrive a proposito dell’inginocchiarsi:

Se guardiamo alla storia possiamo osservare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi… Si diceva che inginocchiarsi era cosa indegna di un uomo libero, non in linea con la cultura della Grecia; era una posizione che si confaceva piuttosto ai barbari. Plutarco e Teofrasto definiscono l’atto di inginocchiarsi come un’espressione di superstizione; Aristotele ne parla come di un atteggiamento barbarico.

Ratzinger aggiungeva che

l’atto di inginocchiarsi non proviene da una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio.

Inginocchiarsi durante la Messa è quindi una postura, che esprime una profonda verità spirituale collegata alla Presenza Reale di Gesù sull’altare.

Romano Guardini dice che l’uomo davanti a Dio non può altro che inginocchiarsi:

… Come è grande Lui … e come son piccolo io! Così piccolo che non posso neppure mettermi a confronto con Lui, che dinanzi a Lui sono un nulla!

Dunque, inginocchiamoci davanti al Signore per esprimergli la nostra profonda riconoscenza per tutti i suoi benefici e manifestargli la nostra umiltà nello stare davanti a Lui e rimanere alla Sua presenza.

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SEGNI: STARE IN PIEDI

Alzarsi e stare in piedi è un segno di Risurrezione, infatti notiamo che Gesù, dopo aver operato una guarigione, invitava sempre ad alzarsi e mettersi in cammino.

Il pregare stando in piedi è un gesto che anticipa ciò che sarà, la gloria che verrà; è lì che questo gesto vuole orientarci. Proprio nella misura in cui la preghiera liturgica è anticipazione della promessa, essa implica lo stare in piedi; ma proprio per il fatto che essa rimane nel “frattempo” in cui noi viviamo, l’inginocchiarsi resta nella liturgia espressione ineliminabile del nostro “qui ed ora” (JOSEPH RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia)

Lo stare in piedi è un invito a cambiare prospettiva, lasciare ciò che ti è comodo e abbandonare le sicurezze.

Romano Guardini nel suo libro “I Santi Segni”, dice a tal proposito:

Sorgiamo in piedi quando riecheggia la lieta notizia; all’Evangelo, nella Santa Messa. Stanno in piedi i padrini al Battesimo, quando pronunziano per il bambino il voto della fedeltà alla fede. Stanno in piedi i ragazzi, quando alla loro Confermazione, rinnovano la professione di fede. Stanno in piedi gli sposi, quando, dinanzi all’altare, mediante la parola della fedeltà, si uniscono in matrimonio. Anche per il singolo il pregare in piedi può essere talvolta un’espressione vigorosa del suo intimo. I primi Cristiani lo hanno fatto volentieri. Conosci certamente la figura dell’orante nelle catacombe, della persona stante, dalla veste ricadente in nobili pieghe e dalle braccia aperte. Essa sta libera, ma tutta dominata da schietta disciplina; tranquillamente intenta alla Parola divina e pronta all’agire gioioso. In quest’atteggiamento si irrigidisce anche la preghiera e insieme si libera in reverenza e prontezza d’azione.

Alziamoci in piedi dunque e preghiamo il Signore riconoscendo la sua grande Misericordia e Bontà verso di noi, dicendo con il Salmista:

“Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome.” (Sal 102)

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CANTICO SPIRITUALE 1: Il prologo

L’opera di San Giovanni della Croce che iniziamo ora a commentare settimanalmente, strofa dopo strofa, tratta dell’amore fra l’anima e Cristo suo sposo.

Il nostro DNA parla della nostra vocazione alla sponsalità. Dio ci ha creati così: per amare ed essere amati. Lo abbiamo scritto nel nostro corpo, nella profondità della nostra anima e del nostro desiderio: da soli ci sentiamo incompleti e vuoti, siamo fatti per la comunione. Il rapporto di coppia è immagine dell’unione che l’anima anela con il suo Dio. In questo sta la nostra gioia, risiede il senso della nostra vita.

Chi potrà descrivere ciò che il Signore fa capire alle anime innamorate dove dimora?

Questo è il primo interrogativo che si pone San Giovanni nel cominciare la sua opera, che sarà dunque uno scritto poetico fatto di immagini e segni, proprio perchè è difficile per il linguaggio umano comunicare l’esperienza dell’anima che cerca Dio e che finalmente gusta la sua presenza, l’essere in Lui, come Lui è in noi.

Io in te, tu in me, siamo infatti una cosa sola.

“Essendo dunque queste strofe state composte in amore di abbondante intelligenza mistica non si potranno spiegare con esattezza, nè questo sarà il mio intento”, spiega il Santo nel prologo: il suo scopo è infatti è di accendere in noi il desiderio di Dio e la sete di questa esperienza personale ed intima di unione con la sua Persona, e per far ciò, è sufficiente intuire, piuttosto che capire, quel che i versi racchiudono, così da accingersi a provarne in prima persona il  contenuto. I versi sono stati scritti “per produrre effetti ed affetti d’amore nell’anima“.

San Giovanni ci introduce ad una conoscenza di Dio che definisce mistica: ovvero la conoscenza “per amore, nel quale le cose non solo si conoscono, ma insieme si gustano”.

La spiritualità di Giovanni della Croce conduce il lettore all’amore e chiede un continuo distacco da ciò che allontana o ostacola questa esperienza personale di unione.

Il Cantico Spirituale è stato composto nel 1584 a Granada per le Suore carmelitane del Monastero di San Giuseppe ed è un trattato sulla preghiera e sull’unione con Dio.

L’anima unita e trasformata in Dio vive in Dio e per Dio, e riflette verso di lui lo stesso impulso vitale che egli le trasmette.

All’inizio di questa lettura diamoci dunque il tempo di alimentare il nostro desiderio di Dio così da poter incominciare questo cammino. Nel silenzio di noi stessi chiediamoci: “Cosa cerco? Chi cerco? Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza (P. Lagerkvist)?”. Poniamoci in ascolto della voce di Colui che ci chiama a sè.

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