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CANTICO SPIRITUALE STROFE 4-9

Strofa 4

O boschi e fitte selve,
piantati dalla mano dell’Amato!
O prato verdeggiante
di bei fiori smaltato,
ditemi se qui egli è passato!

L’anima contempla la bellezza della natura e vi trova i segni del Creatore. San Giovanni della Croce ci indica che l’anima, nel suo cammino verso Dio, passa attraverso la conoscenza di sè stessa delle strofe precedenti, e prosegue attraverso lo stupore di fronte al creato, segno della sua grandezza. L’anima si sente fortemente spinta verso l’amore del suo amato Dio dalla riflessione sulle creature, vedendo che sono state create dalla mano di Lui. Questo è un invito rivolto anche a noi: ritagliamoci del tempo di silenzio camminando nella natura, fosse solo anche il parco vicino casa nostra. Soffermiamoci sui particolari: dei colori, dei profumi, del canto degli uccelli. “Rimaniamo in contatto con la natura. Possiamo contemplare l’azzurro del cielo, ascoltare le acque del ruscello che sussurrano, guardare le formiche, meravigliarci della bellezza di un fiore, sentire il vento sul nostro volto o lasciarci colpire dal gioco delle nubi nel cielo…Ciò che conta è che non giudichiamo niente e che non vogliamo cambiare niente, ,a che accogliamo tutto così come si manifesta”.  “Stavo volentieri nella natura, ma non mi accorgevo di quanto essa mi stesse cambiando interiormente” (Franz Jalics).

L’esercizio sta nel percepire: la percezione è un atto spirituale, permette di rimanere nel presente e di prendere consapevolezza del dono che ci viene dato attraverso la realtà che ci circonda, in modo sensoriale (attraverso la vista, l’udito, l’olfatto) e poi spirituale.

Impariamo a sostare nella percezione, staccandoci dal pensare e dal fare.

Strofa 5

Mille grazie spargendo
qui pei boschi s’affrettava
e, mentre li guardava,
la sola sua presenza
adorni di bellezza li lasciava.

Le creature (il creato) sono come un’orma del passaggio di Dio, per mezzo della quale si scorgono la sua grandezza, la sua potenza, la sua sapienza e le altre virtù divine.

Dio guardò le cose che aveva fatto ed erano molto buone (Gen1).

Grazie all’Incarnazione del Figlio e alla sua Resurrezione, Dio ha rivestito ogni creatura di bellezza e dignità.

Strofa 6

Ah! chi potrà guarirmi?
Alfin, concediti davvero;
e più non mi mandare
da oggi messaggeri
che non sanno dirmi ciò che bramo!

Nella viva contemplazione e nella conoscenza delle creature l’anima vede con grande chiarezza di quanta grazia, bellezza e virtù sono state dotate da Dio. Una bellezza comunicata dalla infinita bellezza dell’immagine di Dio.

Per questo l’anima è sempre più ferita d’amore: vede i segni dell’Amato nel creato e desidera finalmente incontrarlo personalmente, possederlo.

Le creature le hanno fatto aumentare l’amore e dunque il dolore per la lontananza dell’Amato.

Quanto più l’anima conosce Dio tanto più sente crescere in sè il desiderio di vederlo.

L’anima constata che nulla la può guarire da questo dolore se non la presenza e la vista dell’Amato.

L’anima gli chiede dunque il dono della sua presenza.

L’anima vuole conoscere Dio nella sua essenza, non si accontenta più dei suoi doni nè dei suoi segni.

“Io ti voglio tutto, mentre essi (i messaggeri, le creature) non sanno e non possono dirmi tutto di te”.

Quante volte ci capita di cercare appagamento o consolazione all’esterno, nelle relazioni, nel lavoro, nello svago, ma nulla sa colmarci fino in fondo, nulla riesce a darci la vita cui aneliamo?

Strofa 7

E quanti intorno a te vagando,
di te infinite grazie raccontando,
ravvivan così le mie ferite,
e me spenta lascia non so cosa,
ch’essi vanno appena balbettando.

Le creature balbettano all’anima l’immensità dell’amore di Dio, per cui ella si sente di morire d’amore.

San Giovanni della Croce descrive dunque il dolore dell’anima come ferita, che è più leggera e passa presto perchè causata dai segni dell’Amato presenti nella natura, nelle creature. Come piaga, che è impressa maggiormente nell’anima e dura più a lungo, perchè a causarla sono i segni d’amore ancor maggiori dell’incarnazione del Verbo e dei misteri della fede. Tali segni d’amore sono ancor più grandi per cui producono nell’anima un effetto ancor più profondo di amore. Poi vi è un dolore simile alla morte, in cui l’anima desidera vivere una vita d’amore ed essere trasformata in amore, e che è causata da un tocco d’amore, da quel non so che che viene detto balbettando. L’anima chiama questo tocco d’amore “un non so che”, perchè non riesce nè a capirlo nè a dirlo, ma lo gusta. Tale tocco provoca in lei un amore impaziente, di chi anela ardentemente l’unione con l’amato.

Strofa 8

Ma come duri ancor,
o vita, se non vivi ove vivi,
se ti fanno morir
le frecce che subisci
da ciò che dell’Amato concepisci?

In questa strofa l’anima parla alla sua stessa vita, mettendo in risalto il dolore che le causa ricevere questi continui tocchi dell’amore di Dio (le frecce), senza però riuscire a incontrarlo e a unirsi a Lui totalmente, come vorrebbe. L’anima vive in ciò che ama, ella ha la sua vita in Dio. L’anima è consapevole di ricevere da Dio la vita e l’amore, la vita fisica e quella spirituale, di partecipazione al suo amore. I tocchi d’amore che ella riceve da Dio la rendono feconda e rendono il cuore in grado di comprendere almeno in parte il grande amore di Dio per lei.

Strofa 9

Perché, avendo questo cuor
piagato, poi non l’hai sanato?
E avendolo rubato,
perché me l’hai lasciato
e non cogli la preda che hai rubato?

L’anima capisce che l’unica medicina che può guarire il suo dolore è quella di mettersi nelle mani di Dio affinchè Egli si unisca totalmente a lei con la forza del suo amore. L’anima chiede allora all’Amato perchè le ha ferito il cuore con il tocco del suo amore e non glielo guarisce con la sua presenza. L’anima è innamorata, il suo cuore è tutto dell’Amato, chiede dunque all’Amato di farlo finalmente suo, di godere della sua dolce presenza. Perchè non prendi il cuore che hai rubato per amore, per riempirlo, sfamarlo, accompagnarlo, guarirlo lasciandolo abitare e riposare pienamente in te? L’anima che ama Dio spera da Lui come ricompensa la totalità di questo amore divino.

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CANTICO SPIRITUALE 3: STROFE 2 E 3

Strofa 2

Pastori, voi che andate

di stazzo in stazzo fino all’alto monte,

se per caso incontrate

chi più d’ogni altro bramo,

ditegli che languisco, soffro e muoio.

L’anima che cerca Dio chiede aiuto a dei pastori, ovvero a degli intermediari cui S. Giovanni della Croce dà il nome di affetti, desideri, gemiti, che sanno esprimere bene i segreti del cuore. Si tratta dunque di ascoltare nel silenzio la profondità di se stessi, lì dove ha la radice il nostro affetto, lì dove risiedono i nostri desideri più profondi, lì dove sentiamo anche il vuoto e il dolore di una mancanza, di un’incompletezza.

Si tratta di ascoltare cosa si muove nella profondità del nostro cuore.

Questi messaggeri ci porteranno all’incontro con l’Amato che dimora sull'”alto monte”. Inoltre, è per mezzo dei nostri sentimenti, desideri e vuoti più profondi che Dio si comunica a noi lasciando tracce della sua presenza. Sono veri messaggeri quelli che provengono da vero amore.

S. Giovanni indica come pastori anche gli Angeli, anche questi messaggeri della presenza di Dio che ci guidano a Lui attraverso le buone ispirazioni.

L’anima si rivolge a loro dicendo “se per caso lo incontrate”,  ben sapendo che l’Amato si lascia trovare ed esaudisce ogni preghiera al momento opportuno, non prima, non dopo.

Per questo gli espone semplicemente i propri bisogni, lasciando che l’Amati faccia poi quanto gli piace.

Egli è Colui che amo più di tutti.

Per questo languisco, ovvero sono privo di forze, mi consumo e sono abbattuto, perchè Egli solo è la mia guarigione.

Per questo soffro, perchè Egli solo è la mia gioia.

Per questo muoio, perchè Egli solo è la mia vita.

 

Strofa 3

In cerca del mio amore,

andrò per questi monti e queste rive,

non coglierò mai fiore,

non temerò le fiere,

supererò i forti e le frontiere.

Qui l’anima non solo desidera l’Amato e chiede aiuto attingendo alle sue risorse interiori nella vita di preghiera e dunque contemplativa, ma anche si muove concretamente nella propria vita attiva, ovvero nell’esercizio delle virtù e nell’esercizio spirituale. Si tratta di tutti quei piccoli gesti e scelte con cui possiamo allenarci ogni giorno a scegliere Dio, dando un po’ meno spazio al nostro io. E’ il cammino del cristiano: dirsi dei no quando è la parte più egocentrica di noi stessi che vuole avere il comando, e dire sì a chi ci apre alla carità e al dono della nostra vita. Concretamente, avviene attraverso piccoli atti di fiducia, atti di carità, l’accoglienza e l’impegno nel quotidiano anche quando costa sacrificio.

La via per cui si cerca Dio consiste nell’operare il bene in Lui e nel mortificare il male in sè.

Ci sono attaccamenti, dipendenze, consolazioni, tappabuchi, passioni, che occupano il nostro cuore e sono di impedimento alla nostra anima nel cammino verso Dio.

Se le ricchezze sovrabbondano, non vogliate attaccarvi il cuore.

Il nostro cuore, infatti, è di Dio.

La preghiera e l’umiltà sono le armi contro ogni fiera che si avventa dentro e fuori di noi, “destabilizzandoci”. Rivestiamoci dunque con costanza risoluta e coraggio dell’armatura di Dio, per essere sempre più liberi di seguire l’amore della nostra vita.

 

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CANTICO SPIRITUALE 2: Strofa 1

Dove ti sei nascosto, Amato?

Sola qui, gemente, mi hai lasciata!

Come il cervo fuggisti,

dopo avermi ferita;

gridando t’inseguii: eri sparito!

 

San Giovanni della Croce descrive all’inizio del suo Cantico l’esperienza dell’anima che ha incontrato Dio, ha fatto esperienza del suo amore. Questo è il punto di partenza di tutte le conversioni, grandi o piccole, dell’esistenza. L’anima ora sa che Egli è l’amore. Soprattutto, che è il suo amore, l’amore della sua vita. Questo amore l’ha ferita, ovvero ha lasciato una traccia così profonda, che ora all’assenza dell’amato l’anima soffre, perchè non può più fare a meno della sua presenza. Desidera unirsi a Lui. E dunque chiede:

Dove ti sei nascosto, Amato?

Verbo, Sposo mio, mostrami il luogo dove stai nascosto.

Dov’è il luogo dove possiamo ancora incontrare Dio, così intimamente?

San Giovanni scrive che a volte possiamo avere esperienza sensibile che Lui è presente, quando ci sembra di “sentirlo”, così come possiamo fare esperienza di aridità, quando al contrario ci sembra di non riuscire nè a vederlo, nè a sentirlo e avvertiamo un grande vuoto. Ma il punto non sta qui: l’anima infatti desidera incontrarlo ad un livello più profondo di un’esperienza sensibile o affettiva, in cui Dio si può “sentire” o meno. L’anima desidera incontrarlo nella sua essenza. Ma si chiede:

Dove ti sei nascosto, Amato?

Nel commento alla strofa, San Giovanni risponde che il Verbo, Figlio di Dio, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, nella sua essenza e presenza se ne sta nascosto nell’interno dell’anima.

Quindi l’anima che vuole trovarlo, deve ritirarsi in sommo raccoglimento dentro di sè.

È questo il luogo dove possiamo unirci a Dio. É un luogo a noi molto vicino, più intimo di noi stessi. Qui noi possiamo desiderarlo, adorarlo.

Ma vi è una difficoltà. Pur essendo a te così vicino, pure essendo dentro di te, se ne sta nascosto.

Dunque l’anima torna a chiedere:

Dove ti sei nascosto, Amato?

Se l’Amato dell’anima mia è dentro di me, perchè non lo trovo e non lo sento?

Perchè Egli se ne sta nascosto e tu non ti nascondi per trovarlo e per sentirlo.

Egli è il tesoro nascosto nel campo, l’anima decide di vendere tutti i suoi beni pur di comprare e accedere al campo (la propria interiorità) in cui è nascosto questo tesoro (Mt. 13,44).

Per questo, sia che tu sia in un periodo di fervore spirituale, sia che tu sia nell’aridità, fai bene a chiedere:

Dove ti sei nascosto, Amato?

In ogni tempo, nell’abbondanza come nella scarsità spirituale e materiale, fai bene a considerare Dio come nascosto e ad invocarlo dicendo:

Dove ti sei nascosto, Amato?

Egli è l’Amato. Trascorrendo il tempo con Lui, perseverando nella preghiera e intrattenendo a lungo in Lui il proprio animo, stabilendo in Lui il proprio cuore con affetto totale, sgorga in noi l’amore, e con l’amore possiamo chiedergli tutto, avremo libero accesso al suo cuore.

Sola qui, gemente, mi hai lasciata!

L’assenza dell’Amato causa un gemito continuo nell’amante poichè, dato che ama solo Lui, all’infuori di Lui non trova alcun riposo e sollievo. Indizio certo per sapere se uno ama veramente Dio è quindi quello di vedere se si contenta di cosa inferiore a Lui.

Le parole del Santo non vogliono sminuire tutta la sfera delle nostre amicizie, dei nostri affetti per le persone care, o ancora le nostre passioni, per il lavoro, per quello che facciamo ecc. Ci dice solo di non pretendere da una persona o una cosa, che questa colmi la nostra fame di vita e di amore: resteremo inquieti e frustrati. La nostra anima ha bisogno di Dio.

L’anima emette dunque un gemito, perchè ha gustato il dolce tocco di Dio nella propria vita, e ora ne sente la mancanza.

Come il cervo fuggisti,

dopo avermi ferita

Egli infatti è come un cervo, ama starsene nascosto tra i rifugi della roccia, ed è molto veloce al suo passaggio. Un momento si mostra per dare nuovo vigore all’anima, e il momento dopo di nuovo si nasconde. E all’anima sembra di non poterlo afferrare, di non riuscire a trattenerlo, e soffre dunque d’amore.

Nella nostra vita possiamo fare memoria di questi tocchi d’amore con cui Dio ci visita, lascia il segno dentro di noi.

L’anima brucia nel fuoco ardente d’amore tanto da sembrarle di consumarsi come fiamma, la quale la fa uscire di sè, rinnovare tutta e passare ad un modo nuovo di essere.

L’anima riceve il tocco di Dio, ma non può possederlo, per cui con la stessa velocità con cui ne percepisce il tocco, ne percepisce anche l’assenza, perchè in terra non può possederlo come desidera.

Queste ferite spirituali di amore fanno uscire l’anima da sè per penetrare in Dio.

L’anima non solo si allontana dagli attaccamenti e dalle dipendenze della terra, ma esce anche da se stessa e si lancia ad inseguirlo, per unirsi a Lui.

Ma Lui è fuggito via, e il dolore dell’anima è molto grande, perchè ha intravisto il bene immenso che ora non riesce ad afferrare.

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CANTICO SPIRITUALE 1: Il prologo

L’opera di San Giovanni della Croce che iniziamo ora a commentare settimanalmente, strofa dopo strofa, tratta dell’amore fra l’anima e Cristo suo sposo.

Il nostro DNA parla della nostra vocazione alla sponsalità. Dio ci ha creati così: per amare ed essere amati. Lo abbiamo scritto nel nostro corpo, nella profondità della nostra anima e del nostro desiderio: da soli ci sentiamo incompleti e vuoti, siamo fatti per la comunione. Il rapporto di coppia è immagine dell’unione che l’anima anela con il suo Dio. In questo sta la nostra gioia, risiede il senso della nostra vita.

Chi potrà descrivere ciò che il Signore fa capire alle anime innamorate dove dimora?

Questo è il primo interrogativo che si pone San Giovanni nel cominciare la sua opera, che sarà dunque uno scritto poetico fatto di immagini e segni, proprio perchè è difficile per il linguaggio umano comunicare l’esperienza dell’anima che cerca Dio e che finalmente gusta la sua presenza, l’essere in Lui, come Lui è in noi.

Io in te, tu in me, siamo infatti una cosa sola.

“Essendo dunque queste strofe state composte in amore di abbondante intelligenza mistica non si potranno spiegare con esattezza, nè questo sarà il mio intento”, spiega il Santo nel prologo: il suo scopo è infatti è di accendere in noi il desiderio di Dio e la sete di questa esperienza personale ed intima di unione con la sua Persona, e per far ciò, è sufficiente intuire, piuttosto che capire, quel che i versi racchiudono, così da accingersi a provarne in prima persona il  contenuto. I versi sono stati scritti “per produrre effetti ed affetti d’amore nell’anima“.

San Giovanni ci introduce ad una conoscenza di Dio che definisce mistica: ovvero la conoscenza “per amore, nel quale le cose non solo si conoscono, ma insieme si gustano”.

La spiritualità di Giovanni della Croce conduce il lettore all’amore e chiede un continuo distacco da ciò che allontana o ostacola questa esperienza personale di unione.

Il Cantico Spirituale è stato composto nel 1584 a Granada per le Suore carmelitane del Monastero di San Giuseppe ed è un trattato sulla preghiera e sull’unione con Dio.

L’anima unita e trasformata in Dio vive in Dio e per Dio, e riflette verso di lui lo stesso impulso vitale che egli le trasmette.

All’inizio di questa lettura diamoci dunque il tempo di alimentare il nostro desiderio di Dio così da poter incominciare questo cammino. Nel silenzio di noi stessi chiediamoci: “Cosa cerco? Chi cerco? Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza (P. Lagerkvist)?”. Poniamoci in ascolto della voce di Colui che ci chiama a sè.

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Siamo al centro delle Terze Mansioni del Castello Interiore. In queste stanze Teresa parla a chi ha deciso di mettersi in cammino e ha superato le seconde dimore attraversando il combattimento e la lotta contro le cose e i rapporti che vogliono prendere il posto di Dio, Ella dice: “A coloro che per la misericordia di Dio sono usciti vittoriosi da queste lotte e che, aiutati dalla perseveranza, sono entrati nelle terze mansioni, che cosa diremo, se non: Beato l’uomo che teme il Signore?” (3M 1).

Infatti è “beato” colui che ha superato la lotta con determinazione e con la decisione di non uscire più dal proprio “Castello interiore”; è felice chi è fortemente intenzionato a non interrompere mai più il rapporto d’amore che lo lega al suo Dio. Si tratta di persone ormai decise sulla via del bene, le quali “per nulla al mondo commetterebbero un solo peccato (mortale) e, molte di esse, neppure un peccato veniale avvertito” (3M 1,5 e 1,69).

Le Terze Dimore rappresentano, per moltissime persone di fede, il luogo in cui abiteranno quasi tutta la vita, o nel quale trascorreranno lunghi anni. Teresa chiama queste persone “eletti di Dio”.

Teresa parla di “timore”, non di qualunque timore bensì del “Timore di Dio”, che è dono dello Spirito Santo: esso non consiste nell’avere paura di Dio, ma nella paura di perdere il suo amore. È il timore di coloro che hanno incontrato Dio come l’amore della loro vita e non lo vogliono perdere, di chi teme di sciupare il rapporto personale con il Signore.

“Da quando ho cominciato a parlare di queste mansioni, l’immagine del giovane ricco (di cui parla il Vangelo di Mc10:17-22) mi è sempre dinanzi, perché noi ci troviamo nelle sue medesime condizioni, né più né meno” (3M 1,6).

Ecco l’immagine dell’anima che abita Le Terze Dimore, consegnataci da Teresa: il “tale” che incontra Gesù e gli chiede ansiosamente che cosa deva fare per avere in eredità la vita eterna. Si tratta di un uomo che si è molto impegnato nella sua vita, un osservante, rispettoso delle regole, e che tuttavia è ancora inquieto, in ricerca di una ricetta per la vita eterna.

Teresa annota che giungendo alle soglie delle Terze Dimore, ciascuno di noi può essere come questo uomo, può pensare cioè che la felicità, la vita piena, siano un diritto da conquistare con il proprio lavoro, il proprio impegno. Quest’uomo del Vangelo, infatti, si dimostra disponibile ad assumere un impegno ancora maggiore pur di meritare la vita eterna; quando però Gesù gli indica ciò che gli manca, ovvero “seguire Gesù”, egli se ne va rattristato.

È il rischio che possiamo incontrare in queste Dimore: guardare alle nostre opere, anche ai nostri atti virtuosi, come alla garanzia della nostra salvezza, in altre parole incastrarci nel pensare al rapporto con Dio secondo la logica del mercato, del contraccambio. Teresa raccomanda: “L’amore non deve essere fabbricato nella nostra fantasia, ma provato con opere; non pensare, però, che ci sia bisogno delle nostre opere, ma della determinazione della nostra volontà (3M 1,7). […] Perciò, se da un lato è essenziale che l’anima compia le opere dell’amore, ancora più essenziale è che ella non si soffermi su di esse. Andate oltre le vostre piccole opere” (3M 1,6).

Il settimo step ci invita dunque a continuare a mantenere l’impegno personale della preghiera non per senso di dovere, o per ottenere un premio finale, ma per amore, e con gratitudine verso un Dio generoso che ci ama fino alla fine.

Suor Dina della Santa Famiglia

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Con le Prime Dimore abbiamo intrapreso il nostro cammino spirituale e abbiamo iniziato a ritagliarci dei momenti intimi con il Signore e a pregare.

Teresa ci ha spinto a prendere contatto con la nostra interiorità, e ci ha chiamati a prendere coscienza della nostra umanità, per imparare a guardarci alla luce di Dio.

Ricchi di questa profonda esperienza, possiamo oltrepassare la soglia delle Seconde Dimore. Teresa, da vera madre e maestra, ci accompagna con una particolare raccomandazione: “A chi ha cominciato a rientrare in se stesso, chiedo che la prospettiva della lotta non lo faccia tornare indietro.” (2M 1,9)

Entrando nelle Seconde Dimore, portiamo infatti ancora dentro di noi la condizione delle Prime, ovvero la pesantezza della presenza di “bestie velenose e pericolose” che ostacolano il nostro cammino verso Dio. Tuttavia qualcosa di essenziale accade, cioè l’anima inizia a sentire la voce di Dio: “Essendosi avvicinata all’appartamento dei Sua Maestà, ne sente gli inviti e capisce d’avere in Lui un buon vicino, grande in bontà e misericordia.” (2M1,2)

È una vera lotta! Senti che Dio ti chiama e ti invita in vari modi a stare con Lui e ad arrivare alla Stanza Centrale, ma al contempo ti scontri con la tua incapacità a seguire la sua via: ti trovi infatti ancora ingolfato nei tuoi beni, le tue doti, i tuoi rapporti, in generale in tutte quelle cose che nella tua vita si sostituiscono a Dio: sono i tuoi idoli, ai quali sei molto attaccato, perché da loro cerchi vita e felicità. Questa è l’idolatria che ti stravolge, ti succhia la vita e ti allontana dal tuo cammino verso Dio. Comunque, siamo sicuri che “Dio non smette di chiamarci affinché andiamo a Lui.”

In questa lotta, combatto contando non sulle mie capacità, ma sul Suo Aiuto che non viene mai meno e con la sicurezza che Egli è il mio alleato, Lui è con me e non mi abbandona mai. Nelle Seconde Dimore imparo a riconoscere la strategia del nemico che ha lo scopo di ingannarmi, facendoci credere che non vale la pena seguire Dio e rispondere al suo invito.

È molto evidente il contrasto tra ciò che Dio ci invita a fare e ciò che noi possiamo fare per aderire a Lui. E’ proprio un bivio, e infatti ci sono due strade possibili:

●      una è quella dello scoraggiamento, della depressione: toccando con mano la propria incapacità di rispondere all’invito di Dio, si scivola in sentimenti di disgusto e di frustrazione. Si assumono atteggiamenti e parole di sfiducia, di rabbia e di sconforto, sensi di colpa … Insomma, la tentazione dell’autoescludersi dalla possibilità di proseguire il cammino. E si arriva infine ad abbandonare la preghiera

●      l’altra strada è quella di soffermarsi con apertura e gratitudine sulla dolcezza che ci viene dall’invito di Dio: “È così dolce la Sua Voce …” (2M1,2). Drizzare dunque le proprie antenne per captare ogni segnale che viene, e non disprezzare più nulla di ciò che può trasmetterci l’invito di Dio; tutto, infatti, parla di Lui. Posso finalmente essere sensibile al Signore e soprattutto in piena connessione con Lui. Ogni attimo della mia giornata diventa un’occasione di comunione con Dio.

La domanda, allora, diventa: come possiamo sentire la voce di Dio? Egli ci viene incontro e ci parla in diversi modi servendosi di mille circostanze e occasioni, perfino di quelle che noi saremmo tentati di sottovalutare o scartare. Teresa dice: Dio ci parla “attraverso le parole di certe buone persone, nelle prediche, nelle buone letture e in tutti i modi di cui Dio si serve per farci sentire le sue chiamate: prove, malattia e certe verità che egli ci insegna nei momenti in cui stiamo in orazione” (2M1,3)

Durante la mia preghiera, quindi, in questo sesto step, cerco di coltivare i sentimenti del figlio, “il figlio prodigo”, e di non perdermi dietro il cibo dei porci abbandonando la mia casa e il mio castello; decido di stare alla presenza di mio Padre in ogni attimo della giornata, accogliendo ogni suo invito per unirmi a Lui e “fare TUTTO nel nome del Signore Gesù” (cf Col3,17).

Ogni volta che ti viene la tentazione di pensare o riflettere sulla tua incapacità nel rispondere all’invito di Dio, ricordati che non sei da solo, il Signore è il tuo vero alleato e Lui non ti abbandona mai. Cerca sempre di entrare in Lui parlandogli come ad un amico e ascolta ciò che vuole dirti con attenzione e cura. 

Sr Dina della Santa Famiglia

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Prima di procedere oltre nel Castello Interiore, Teresa scrive un secondo capitolo in cui dà indicazioni per navigare meglio all’interno delle prime dimore.

All’inizio, Teresa ci spiega con molta lucidità lo stato dell’anima che si trova in peccato mortale, sottolineando il disordine che esso lascia nell’uomo e nella sua interiorità. Le interessa molto evidenziare che lo stato di peccato rovina il rapporto intimo con Dio, perciò ci consiglia di essere molto attenti e vigilanti!

Tuttavia, nonostante l’uomo a causa del peccato si trovi nella tenebra oscura, Teresa assicura che il Sole splendente continua ad abitare al centro dell’anima, che così non perde il suo splendore, né la sua bellezza: “Il Sole splendente … continua a star nell’anima, e non vi è nulla che lo possa scolorire … Se sopra un cristallo esposto al sole si mette un panno molto scuro, è evidente che, anche se il sole batte su di esso, la sua luce non avrà nessun effetto sul cristallo” (1 M, 2,3).

Proprio per questo, il nostro peccato e le nostre mancanze non ci dovrebbero spaventare; come cantiamo nell’Inno dei Vespri di Quaresima: “Grande è il nostro peccato, ma più grande è il tuo amore”. Infatti la misericordia di Dio è più forte di ogni peccato.

Ciò non vuol dire che possiamo vivere in modo mediocre e prendere con leggerezza la nostra natura peccatrice. Teresa ci insegna a non aver paura della nostra fragile umanità, ma piuttosto ad avere sano timore di offendere Dio con il peccato. Ci esorta ad invocare il Suo aiuto per essere liberati dal giogo della conseguenza del peccato originale, perché “Senza il suo aiuto non si può proprio far nulla” (1M, 2,5).

L’obiettivo della Santa in queste prime Mansioni è da una parte aiutare le sue sorelle a percepirsi create ad immagine di Dio ed ammirare la grandezza della propria dignità e bellezza, e dall’altra l’essere consapevoli della propria natura segnata dalle conseguenze del peccato originale; soprattutto, essere grate di ciò che Dio opera in loro. Aveva molto a cuore di insegnare loro a guardarsi con uno sguardo oggettivo, sano e concreto.

Uno dei temi più importanti in queste prime dimore è la conoscenza di sé. Sembra un impegno specifico, che inizia in queste stanze, ma che si dovrà mantenere costantemente attivo fino all’ultima mansione.

Il conoscimento di sé di cui parla Teresa non significa compiere un’analisi più o meno psicologica, bensì è il guardarsi sotto lo sguardo di Dio, a partire dalla Sua chiamata ad una comunione intima. Infatti aggiunge subito che l’uomo conosce se stesso veramente solo quando conosce Dio: «Mai finiremo di conoscerci se non procuriamo di conoscere Dio. Guardando la sua grandezza, conosceremo la nostra bassezza, guardando la sua purezza, conosceremo la nostra sozzura, considerando la sua umiltà, conosceremo quanto lontani siamo dall’essere umili» (1M,2,9). Conoscere Dio significa rispondere alla sua chiamata e alla comunione con Lui, in Cristo (cf. Gaudium et Spes, 19). E a proposito della conoscenza di sé, fa riferimento all’umiltà, e precisamente all’umiltà vera di Cristo (cf. Fil 2,6-8) esortando a “camminare nella verità davanti a Lui” (V 40,3).

Uno dei consigli pratici che ella dà per questo cammino della verità è: “Fissare gli occhi su Cristo, nostro bene, e sui suoi santi: da essi impareremo la vera umiltà, la nostra intelligenza ne resterà nobilitata e la conoscenza di noi stessi non ci renderà vili e negligenti” (1M, 2,11). Essendo ancora nelle prime dimore, si tratta di un procedere progressivo verso la Luce, all’interno del Castello. “Non giunge ancora quasi nulla della luce che emana dal palazzo dove abita il Re. Sebbene le dimore non siano così nere e tenebrose come quando l’anima è in peccato, la luce ne è in qualche modo offuscata, tanto che chi si trova lì non può vederla … È come se uno entrasse in una sala inondata di sole, avendo gli occhi così pieni di terra da non poterli quasi aprire” (1M, 2,14).

Teresa ci invita a metterci a nudo davanti al Signore, convinta che solo alla luce di Dio noi vediamo la luce di noi stessi e possiamo toccare la nostra realtà interiore, compresi gli aspetti oscuri che non ci piacciono, che non vorremmo, che non accettiamo e cerchiamo di mascherare e negare. Questi li rappresenta come animali e serpenti pericolosi che ingannano l’anima a procedere nel cammino verso il palazzo reale, quindi ci spinge a combattere contro di loro e a non cedere davanti alla tentazione di evadere da questo contatto, fuggendo e lasciando il proprio edificio interiore. Questo ci rimanda al Vangelo delle Tentazioni secondo Marco (Mc 1,12-15), che presenta Gesù che stava con le belve selvatiche, immagine di un’umanità riconciliata con sé stessa e modello dell’uomo che fa pace con la propria fragilità. Solo in questo modo “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv8,32).

Dunque il quinto step consiste nel prendersi cura del proprio rapporto con il Signore in questo modo:

–        affronto le bestie velenose che impediscono il mio cammino verso il Re. Come? Nel silenzio della preghiera ne prendo consapevolezza, do loro il giusto nome

–        Non scappo. Chiedo l’aiuto al Signore, la grazia della determinazione. Invoco lo Spirito Santo, affinché mi dia consolazione

–        Se mi sento solo in questo cammino interiore, se provo scoraggiamento, paura o desolazione in questo passo verso la stanza principale, riporto il mio pensiero a Dio. Rinnovo la certezza che Egli è presente nella mia vita. Rimango in questa consapevolezza. Può aiutarmi ripetere le parole di un salmo, come ad esempio: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”, oppure una giaculatoria: “Tu Signore sei la mia forza”, oppure “Niente ti turbi, niente ti spaventi” o semplicemente il nome di Gesù, o il nome di Padre, Abbà.

Sr Dina della Santa Famiglia

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Siamo arrivati al quarto step del nostro cammino spirituale, e come parlare del cammino interiore senza parlare della andariega de Dios ovvero la “vagabonda” di Dio: Santa Teresa di Gesù? Per Teresa la vita è un cammino continuo e il suo motto era: “Camminiamo insieme Signore” (C 26,6)! La preghiera è un cammino che “porta al cielo” (V 8,5) e la santità è un cammino di perfezione. Lei stessa è stata una donna sempre in cammino, una sposa che lavora e si consuma per il suo Sposo. Era in cammino per Cristo e per la sua Chiesa.

Non troveremo un’altra buona maestra e guida migliore di Teresa! Abbiamo scelto una delle opere meravigliose che ha lasciato al Carmelo e alla Chiesa: il Castello Interiore. È un vero capolavoro, parla del cammino spirituale del cristiano e presenta un itinerario verso il centro dell’anima dove Dio dimora, quindi ci porta a un livello molto profondo di interiorità, ma anche ci proietta verso una logica di “estroversione”, cioè di apertura verso l’esterno, verso l’amore per il prossimo.

Teresa, nel suo libro, propone un percorso di crescita descritto in sette “dimore” o “mansioni” o “stanze” , collocate nell’uomo interiore. Non si tratta certo di luoghi, ma piuttosto di “modi di essere”. Teresa lancia una proposta di viaggio, per cui è “Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio” (Sal 83,6), partendo dalla realtà umana segnata dal peccato fino a raggiungere la piena trasformazione della persona in Cristo, ovvero la settima stanza. Non è una meta irraggiungibile, perché è un dono di Dio e perché l’ha vissuto Teresa stessa sulla propria pelle.

Il castello di cui parla Teresa è fondato su tre cardini molto importanti ricavati dalla Sacra Scrittura:

1)    Nel castello ci sono molte stanze “Nella casa del Padre mio ci son molte dimore.” (Gv14,2)

2)     L’anima del giusto è un paradiso dove Lui pone le sue delizie; (Prov. 8,31)

3)    Dio ci creò a sua immagine; «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza.” (Gen 1,26)

Teresa ci regala la sua esperienza personale ed intima del Castello, condivide con noi la sua realtà interiore per poter portare anche noi a questa intimità con il Signore.

Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo, nel quale vi siano molte mansioni, come molte ve ne sono in cielo.” (M1,1)

Teresa ci introduce in questo viaggio interiore a partire da una grande stima per la persona umana e parla in positivo “della bellezza e dignità delle nostre anime”. Infatti l’uomo è l’essere più simile a Dio: non solo è fatto a sua immagine e somiglianza, ma ha anche la capacità di contenerlo. Non solo ha la vocazione alla relazione con Dio, alla comunione con Lui, ma il suo stesso essere è strutturato come “capace di Dio”.

Nel primo capitolo del libro, Teresa scrive:

“… dovete sapere che vi è una grande differenza tra un modo di essere e un altro, perché molte anime stanno soltanto nei dintorni, là dove sostano le guardie, senza curarsi di andare più innanzi, né sapere cosa si racchiuda in quella splendida dimora, né chi l’abiti, né quali appartamenti contenga.” (M1,5)

Teresa sa – per esperienza – che l’uomo può perdersi e svuotarsi da solo e invece di prendere contatto con la propria interiorità, sta sempre altrove, disperdendosi all’esterno e perdendo la propria identità. Per questo non basta sapere che il castello esiste, vale la pena entrare.

Ma come posso entrare nel mio castello?  La risposta ce la dà Teresa: “La porta per entrare in questo castello è l’orazione e la meditazione.” (M1,7)

Sembra una risposta strana e a sproposito: che c’entra la preghiera con l’ingresso nel mio castello? In realtà, il castello è uno spazio sacro, è un luogo santo perché lì abita il Santo. Quindi per entrarvi bisogna mettersi in relazione con Dio, con colui che abita questo edificio, ovvero parlare a tu per tu con Lui, il Dolce Ospite dell’anima, ovvero pregare.

Le prime dimore del castello sono il luogo della conversione. Effettivamente nel primo capitolo di queste dimore, Teresa ci offre una visione positiva della nostra persona e ci consiglia di convertire il nostro sguardo su noi stessi, né troppo alto che ci porterebbe ad essere orgogliosi né troppo basso, che farebbe di noi persone depresse.

Entrare in queste dimore è un po’ come prendere coscienza della nostra umanità, fragilità, luci e ombre della nostra persona; e insieme a tutto questo la certezza di essere chiamati al rapporto personale con Dio.

Se vuoi entrare nelle prime dimore/mansioni, cammina con Gesù fissando il tuo sguardo su di Lui senza voltarti indietro. Confida in Lui. Sarà Lui, Gesù, che ti accompagna nel tuo varcare la soglia della conoscenza di te stesso. E ciò può avvenire soltanto dando avvio ad un dialogo continuo con Lui come con un amico.

Sr Dina della Santa Famiglia

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Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio? (1Cor6,19)

San Paolo con la sua domanda ci ricorda la nostra condizione di battezzato. Diventando Figli di Dio per adozione, noi abbiamo ricevuto lo Spirito Santo. Questo Spirito – come scrive André Louf nel suo libro “L’uomo interiore”

è uno Spirito continuamente in preghiera, che grida instancabilmente nei nostri cuori: “Abba, Padre!” (Rm8,15)

Sembra una cosa scontata, ma non lo è.  Si tratta di ri-scoprire la ricchezza intima che portiamo nel nostro mondo interiore, il nostro tesoro profondo, ovvero Lo Spirito Santo che abita nei nostri cuori.

Spesso siamo preoccupati di valutare la nostra preghiera e ci dimentichiamo che lo Spirito che abita in noi in ogni momento veglia e prega per noi e prega in noi. Ciò non deve condurre ad abbassare o diminuire la propria vita di preghiera. La consapevolezza di questo dono accende un fuoco dentro il cuore per un impegno fedele ai momenti personali della preghiera quotidiana.

I maestri di preghiera consigliano di fissare dei tempi precisi per la preghiera personale nella giornata, per poter entrare nel luogo segreto del cuore, nel quale il colloquio con Dio non viene mai interrotto. Dobbiamo ammettere che è impegnativo tagliarsi dei tempi per la preghiera quotidiana personale che non sia un’aggiunta o un ulteriore impegno da incastrare nella lista delle cose da fare. La preghiera non è un dovere e nemmeno preghiamo per sentirci migliori, noi preghiamo perché vogliamo imitare il Maestro in ogni cosa, anche nella preghiera. Bastano cinque minuti ogni giorno. L’importante è scegliere il momento migliore in cui riesco a stare da solo e sono totalmente concentrato. Occorre fedeltà al tempo che fisso, niente meno e niente di più. Piano piano mi abituo a questo ritmo spirituale nella giornata e la preghiera diventa per me lo spazio giornaliero in cui posso rileggere e orientare la mia vita verso il Padre.

È utile trovare un Santo o una Santa che mi accompagni in questo cammino di preghiera. S. Teresa di Gesù direbbe di mettersi nella compagnia dei buoni, infatti sono uomini e donne che hanno attraversato già una vita che è diventata profondamente e pienamente preghiera. Chiediamo la loro intercessione e il loro aiuto per imparare a metterci alla presenza di Dio.

La domanda è: come faccio con le distrazioni? Sii più furbo di ogni distrazione e fa di ogni distrazione una materia del tuo colloquio con Dio, ovvero: se ti ritorna in mente un evento o una situazione, parla con il Signore di questa cosa e raccontagli ciò che ti ronza in testa e così non sei distratto dalla preghiera ma sei pienamente in intimo contatto con Lui.

Dunque il nostro terzo passo consiste nel trovare un tempo preciso durante la giornata per un colloquio intimo con il Signore, impegnandoci a conservarlo con fedeltà e lasciandoci accompagnare dai Santi.

sr Dina della Santa Famiglia

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Tante volte, nei nostri rapporti quotidiani, fatichiamo per conquistare o meritare un buon rapporto con qualcuno. Invece con Dio non è così. Con Dio TUTTO è GRAZIA.

La relazione con Dio, quella che noi chiamiamo preghiera, non si acquista con i nostri sforzi o con i nostri meriti, si tratta solo di accorgerci e accogliere l’amore che Egli vuole riversare nei nostri cuori.

“Ogni contatto con Dio è preghiera, ma non ogni preghiera è contatto con Dio!” dice abuna Matta El Meskin, sembra un gioco di parole, ma non lo è.

Perché a volte preghiamo senza alcun desiderio di comunicare con Dio, semplicemente per senso di dovere. Questa non è preghiera, la preghiera non è un dovere che compi per dare a Dio una parte del tuo tempo e delle tue forze e nulla più.

La preghiera è reciproco desiderio di incontrarci con il Signore, “È un’opera realizzata in collaborazione tra l’uomo e Dio” ci spiega abuna Matta El Meskin. Questa opera esige un restare in continuo contatto spirituale con il Signore. Si tratta di imparare un’arte. L’arte di prendersi cura del proprio rapporto con Dio, è un atto di perseveranza e fedeltà a questo rapporto. Ciò non vuol dire stare 24 ore in chiesa né rattristarsi per la scarsità del tempo disponibile per pregare, bensì si tratta di assicurarsi di essere pieni di desiderio di comunicare con Dio e di essere sinceri nel proprio cammino spirituale. “Allora ti accorgi che i minuti possono essere come giorni” e lo Spirito Santo ti concede, anche in poco tempo, delle grosse opportunità di rallegrarti e di sentirti ricolmo della sua presenza.

Dice abuna Matta El Meskin: “In genere, il lamento per la scarsità del tempo disponibile per la preghiera è solo una falsa scusa per giustificare l’“io” nella sua negligenza, trascuratezza e indifferenza nello stare di fronte a Dio.”

“Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!” (Mc 13.37). Cosa significa?

Significa essere coscienti e vigilanti; non superficiali e distratti. Chiediamo allo Spirito Santo il dono della vigilanza del cuore e l’attenzione ad ogni istante della nostra giornata, perché diventi una preghiera, trasformando ogni minuto morto in un’opera divina eterna.

La vigilanza del cuore durante la mia quotidianità – di qualunque tipo sia: a casa come a scuola, come in fabbrica, in campagna, in negozio o in ufficio, al bar o al lavoro – ecco il segreto. L’importante è rimanere sempre in preghiera nel segreto del proprio cuore; essere sempre e dovunque in contatto con il Signore.

“La vigilanza del cuore – cioè il prestare a più ripresa durante la giornata l’attenzione al Signore Gesù, mantenendo viva una conversazione segreta con Lui, fatta di silenziose parole d’amore – non è assolutamente inferiore allo stare in preghiera in chiesa. 

Dunque, il secondo passo per un cammino sano nello Spirito è vigliare, approfittando di ogni secondo della propria giornata per connettersi con il Signore.

Sr Dina della Santa Famiglia

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