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Gesù ci viene oggi incontro come pastore. Egli oggi entra in relazione con noi come Colui che ci custodisce. Ha cura della nostra vita. Ci conosce personalmente, e proprio perchè ci conosce, ci ama. E amandoci, arriva fino al punto di donare la propria vita per la nostra. Per darci la vita, ed una vita traboccante. Gli stiamo a cuore, gli apparteniamo. Lasciamo andare ogni altro legame che ci spacca dentro, o che crea divisione nei nostri rapporti, facendoci sentire soli e feriti. Stringiamoci a questa relazione vitale e a quelle relazioni fraterne che ne sono l’immagine. Figli nel Figlio, anche noi veniamo restituiti alla nostra capacità di amare e donare noi stessi, anche noi possiamo tessere relazioni cristiformi. Quando dono la mia vita amando un’altra persona, faccio esperienza che in verità la mia vita non la sto perdendo, perchè mi “ritorna”  moltiplicata in termini di gioia, senso, realizzazione. 

 

Lasciamo dunque che questa paternità di Dio possa prendersi cura di ogni parte di noi stessi, anche di quelle in noi più ferite, orfane. Rimaniamo in quei sentimenti di sicurezza e pace profonda che dona il sapersi in buone mani. Rimaniamo oggi nel suo amore. 

sr Marta del Verbo di Dio

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Vuoi guarire? (2)

L’evangelista Marco racconta un bellissimo episodio (Mc 2,1-12): Gesù si trova in una casa. La folla è numerosa, non c’è più uno spazio libero, nemmeno sulla porta. Sicuramente tutti hanno validi motivi per cui non cedere il proprio posto. Fuori, però, c’è un uomo che soffre, un paralitico che non riesce ad entrare per presentarsi davanti a Gesù.

La cosa che colpisce molto è che questo paralitico in tutto lepisodio narrato non parla, non chiede, non si lamenta, non prega, non dialoga con Gesù, né prima della guarigione, né dopo, e nemmeno fa la sua professione di fede come altri malati-guariti da Gesù. Eppure è lui il fulcro di tutta la narrazione. È il centro dellattenzione degli amici. È il centro del gesto di perdono di Gesù.

Sant’ Isacco di Ninive dice: “La maggior parte degli uomini che sono malati sostengono di essere sani”. Ma quest’uomo – credo – non è così, non si illude di una falsa salute, anzi è molto consapevole della propria malattia e del bisogno di guarigione. La sua paralisi sembra grave e molto profonda, tuttavia è in grado almeno di lasciarsi portare dagli altri. La sua grandezza rimane nel non porre ostacoli né resistenza davanti alla speranza di una guarigione. E’ molto docile e sembra voglia bussare a tutte le porte finché non trovi la guarigione.

Questo suo atteggiamento non è facile, né scontato; ci vuole tanta umiltà e mitezza per lasciarsi portare dagli altri, cioè per lasciarsi amare e farsi servire. Spesso il nostro orgoglio ci mette in tentazione: che hanno gli altri più di me per potermi portare da Gesù? Oppure poniamo, senza chiari motivi, delle resistenze che ci impediscono di essere sostenuti e aiutati. Tutti proviamo quanto costa sentirci bisognosi di qualcosa e soprattutto di qualcuno; ma questo paralitico non si è lasciato vincere da simili tentazioni: ha vinto il delirio dellautosufficienza e ha superato lillusione dellonnipotenza; chissà se non è stato proprio lui ad insistere chiedendo a questi quattro uomini di essere portato da Gesù!

Levangelista Marco dice: Vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati».” Ho sempre legato il pronome loro” a questi quattro uomini che portano il paralitico, ammirando la loro fede che evidentemente è molto grande, perché non si lasciano scoraggiare e trovano un ingegnoso modo per superare lostacolo ed arrivare a Gesù. Ma possiamo pensare che in questo pronome, c’è anche il paralitico. Nella loro” fede è inclusa anche la sua fede. Forse è una fede molto semplice, ma espressa con molta fiducia e pieno abbandono, senza obiezione né lamentela.

Mi piace pensare che Gesù guardi questo uomo con tenerezza e compassione apprezzando non solo la fede di questi quattro uomini coraggiosi e geniali, ma anche il granello di fede che il paralitico porta nel nascondiglio del proprio cuore. Gesù certamente comprende molto bene la ricerca di una guarigione fisica, ma come sempre va al di là e, rivolgendosi al paralitico, lo chiama “figlio”; è commovente immaginare un uomo che sente il peso della propria paralisi e di chissà quanti blocchi e paure, sentimenti di rifiuto, di giudizio, di condanna …  Gesù con la parola “figlio” gli trasmette un amore incondizionato, un’accettazione totale a prescindere dal suo stato fisico, che bellezza!

E non si ferma qui, gli annuncia che tutti i suoi peccati sono stati perdonati, che notizia liberante! Così Gesù gli regala un nuovo inizio, una base dalla quale ripartire.

Riusciamo a comprendere la grande gioia dei quattro uomini che lo avevano portato, infatti hanno guadagnato non solo un amico guarito nel fisico, ma anche risanato e liberato interiormente. Egli ora può testimoniare il suo incontro con Cristo.

Ma possiamo anche immaginare la felicità e la gratitudine dell’uomo: una felicità e una gratitudine che gli resteranno per tutta la vita.

Avviciniamoci al Signore con fiducia e abbandono, sicuri che Egli è fedele e compassionevole e non ci lascia mai! Consegniamo a Lui ogni nostra paralisi, evitando ogni tipo di chiusura o autosufficienza.

Come questo paralitico apriamoci ad ogni mezzo o strada che ci porta a Gesù senza rassegnazioni, ma docili all’opera dello Spirito Santo.

 

Sr Dina della Santa Famiglia

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Vuoi guarire?

Nel Vangelo di Giovanni (Gv 5, 1-9) si parla di una piscina, la piscina di Betzaetà: ha cinque portici sotto i quali c’è un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Insomma, un luogo simile a una sala d’attesa in cui si ritrovano acciacchi diversi, tutti in attesa di un miracolo o, almeno, di un cambiamento.

 

In questa grande folla, Gesù vede uno che è malato da trentotto anni, da una vita: da prima che Gesù nascesse quest’uomo sta male! Mentre in altri racconti di guarigione è il malato che cerca Gesù, che lo supplica, qui invece è Gesù che prende l’iniziativa, che interroga, che rivolge la parola con una domanda apparentemente scontata e provocatoria: “Vuoi guarire?”. A noi spettatori questa domanda di Gesù infastidisce un po’ e ci viene spontaneo  dire: ma ti pare il caso di fare una domanda del genere? Ma certo che vuole guarire! Si trova vicino alla piscina proprio per questo! Sembra ovvio che cerchi e aspetti la guarigione. Ma non è così scontato.

 

Infatti alla domanda diretta di Gesù, quest’ uomo non risponde proprio. Invece di dire subito: sì, lo voglio! ed esplicitare il proprio desiderio di guarigione, si mette a lamentarsi della sua condizione e a raccontare le sue aspettative deluse. Sembra quasi incastrato nella sua delusione e solitudine; non riesce ad accogliere questa domanda come una via d’uscita dalla sua triste condizione; non si aggrappa a questa domanda per lasciare la sua situazione inferma.

 

L’evangelista dice che Gesù sa che quest’ uomo è così da molto tempo, quindi sa quanta delusione ci sia nel suo cuore, quanto ci sia bisogno di speranza. Gesù percepisce che questo paralitico probabilmente è arrivato a non credere più che per lui sia possibile una guarigione. Ormai convive con la sua infermità, si identifica con la sua paralisi. È convinto che la guarigione dipenda dalla capacità o dalla disponibilità degli altri; ovvero qualcun’altro, e non lui, si deve impegnare e lavorare per la sua guarigione: non è sua la responsabilità. E precisamente perché sa tutto questo, Gesù non esita a stuzzicare il punto più vulnerabile nel cuore di quest’uomo facendo proprio quella domanda.

Dicendogli “Vuoi guarire?” Gesù accompagna il malato a scavare in profondità, a prendere contatto con la propria interiorità, toccare il proprio bisogno e riconoscere il desiderio profondo del suo cuore.

In poche parole Gesù vuole che quest’uomo prenda in mano la propria vita e riconosca il suo bisogno di essere guarito.

Non è detto che tutti siamo disposti ad essere guariti o a cambiare la nostra attuale situazione: davanti a ogni cambiamento tutti abbiamo, in maniera più o meno forte, una resistenza, dietro la quale c’è sempre un nascosto attaccamento a qualcosa che non siamo disposti ad abbandonare. Ecco perché Gesù pone questa domanda fortissima, come volesse dire: lo desideri veramente? Sei disposto a prendertene la responsabilità? Si vede molto bene l’attenzione di Gesù all’uomo, per il quale ha a cuore non soltanto la guarigione fisica, ma la libertà interiore.

Mi colpisce che Gesù va oltre la risposta del paralitico, e nonostante le sue resistenze, gli dona la guarigione, gratuitamente. Gli dice: «Alzati, prendi la tua barella e cammina». E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare. È tutto molto semplice: non c’è alcun gesto particolare, ci sono solo questi tre verbi:

 

  •  Alzati: dalla delusione, dal senso di sconfitta, dalla tua prospettiva troppo bassa e limitata, dall’abitudine, risorgi, riappropriati della statura umana che il Signore ti dona.
  • Prendi la tua barella: riconosci la sofferenza, non avere paura di darle un nome. Questo peso (questa barella) non deve più essere come un giogo che ti determina e ti identifica! Prendilo in mano, perché è Gesù che ti dà la forza e la libertà di farlo.
  • Cammina: fai almeno un passo, muoviti, cambia prospettiva, lascia ciò che ti è comodo e abbandona le tue false sicurezze, per seguire questo Maestro che ti ha liberato.

 

Anche io oggi posso ricevere questi tre imperativi per poter crescere veramente nella libertà interiore ed essere guarito da tutte le mie infermità.

sr Dina della Santa Famiglia

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Ciò che noi abbiamo, ma anche ciò che siamo, è dono di Dio, del suo amore. La nostra mente, il nostro cuore, le nostre energie, la nostra vita con tutti i suoi doni, li abbiamo ricevuti per amore. Se noi percepiamo noi stessi e ciò che abbiamo come dono fatto da un Padre ai suoi figli, la nostra vita diventa una risposta a questo amore: viviamo amando, cioè donando a nostra volta, condividendo noi stessi e i doni ricevuti, facendo comunione con gli altri. Così facciamo circolare l’amore, la vita raddoppia, si moltiplica. Una vita nell’amore è una vita feconda, produttiva, creativa, e che ha come esito il ricevere a propria volta amore: donando, ricevo ulteriore dono. Una vita che partecipa della gioia stessa del Signore, perché la gioia del Signore, la bellezza della vita di Dio, sta proprio in questa circolazione dell’amore. In tutto questo non conta la quantità, ma solo come io rispondo al dono che mi è stato fatto.

C’è un aspetto che accomuna diverse parabole di Gesù, e che ritroviamo anche in quella raccontata nel Vangelo di oggi: Dio ci dà fiducia, ci consegna i suoi beni. Ci dona la vita e lascia alla nostra responsabilità come viverla. Ci tratta da figli, e non da schiavi. Possiamo interrogarci su come rispondiamo a questa fiducia ricevuta, se viviamo come figli contenti di essere amati, anche noi fiduciosi nel Padre e in ciò che ci elargisce, fiduciosi nella forza dell’amore di realizzare in pienezza la vita.

Questa parabola ci spinge a liberarci da quella paura di giocarci, rischiare la vita nell’amore, che ci impedisce di viverla in pienezza, ci blocca e ci rende sterili. Possiamo fare tutti esperienza che se ci chiudiamo in noi stessi con la paura di perdere quello che abbiamo, proprio l’amore che abbiamo muore, perdiamo anche quello; la paura paralizza e impoverisce la vita. Invece, più viviamo donandoci, più riceviamo amore e la nostra vita è nella gioia.

sr Sara della Trinità

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In questa domenica, il Vangelo ci parla di occasioni da non perdere, e lo fa con la parabola delle dieci vergini che, munite di lampade, escono per accogliere e accompagnare lo sposo alla cerimonia delle nozze. “Il regno dei cieli sarà simile…”: questa frase tipica di Gesù ci conduce nel vivo del racconto, il quale precisa subito qualcosa di importante, e cioè che cinque di queste vergini sono sagge e cinque stolte. Le sagge, infatti, hanno portato con sé l’olio per le lampade, mentre le stolte no. Lo sposo tarda ad arrivare e tutte quante si addormentano. A mezzanotte viene annunciato l’arrivo dello sposo. Le vergini stolte, allora, si accorgono di non avere l’olio per le lampade, e lo chiedono a quelle sagge, ma queste rispondono che non possono darlo perché non basterebbe per tutte. Mentre dunque le stolte vanno in cerca dell’olio, arriva lo sposo; le vergini sagge entrano con lui nella sala del banchetto e la porta viene chiusa. Le cinque stolte ritornano ma è troppo tardi; bussano alla porta ma rimangono fuori.

Ci colpisce un po’ la durezza sia della risposta delle vergini sagge sia di quella dello sposo nei confronti delle vergini stolte, ma entrambe hanno un senso profondo.

Il cuore del racconto è questo olio, di cui non ci viene detto esplicitamente di che cosa si tratti, ma che capiamo essere legato alla vita personale, alla propria esperienza, qualcosa che non può essere prestato o diviso con gli altri. È qualcosa che riguarda la luce, ed è qualcosa di essenziale, che fa la differenza tra il prendere parte al banchetto nuziale, a questo momento di gioia, di vita, e il rimanerne esclusi. È questo olio che ha a che fare con l’esortazione di Gesù a vegliare (v.13) e non il fatto che le vergini stolte si addormentino: tutte le ragazze, infatti, vengono vinte dal sonno.

Tutti possiamo ritrovarci in questa storia. Anche se conosciamo il Signore e desideriamo con tutto il cuore partecipare a quella gioia che ci promette, alla vita piena che ci attende, tutti dobbiamo affrontare la nostra debolezza che ci fa stancare e addormentare. Il punto non sta nella nostra fragilità, ma nel nostro essere preparati a quando veniamo svegliati dalla voce che annuncia la presenza dello Sposo, voce che non manca mai nella nostra vita perché abbiamo la certezza che il Signore, anche quando sembra ritardare, c’è, viene.

La parabola di Gesù ci aiuta a riflettere sul fatto che l’incontro con il Signore e il prendere parte alla sua gioia non sono cose che si possono improvvisare, esperienze che si fanno in modo automatico, a cui si può rimediare all’”ultimo istante”. È necessario un carburante, qualcosa che ci permetta di vivere accesi, luminosi, pur dentro la nostra debolezza che ci fa talvolta assopire, dimenticare l’orizzonte della venuta del Signore. Ecco l’olio. C’è un particolare che viene detto di quest’olio: che è in piccoli vasi. Che cosa ci fa vivere attenti, accesi, con una tensione verso il Signore? Cosa mantiene vivo il desiderio? Che cosa ci aiuta a tenere accesa la passione per la vita piena? Sono le piccole occasioni quotidiane, ordinarie, di cui è fatta la nostra vita di cristiani: la mia preghiera quotidiana, i miei piccoli atti di amore, le scelte di sobrietà, di distacco, i miei atti di fiducia, la mia speranza …: quelle piccole cose attraverso cui alimentiamo il nostro rapporto col Signore. Ci accorgiamo che è la fedeltà alle piccole cose che fa la differenza. Non sono i grandi momenti, gli eventi straordinari, i grandi entusiasmi a costruire il nostro rapporto con Dio, ma quelle ordinarie occasioni che costituiscono il tessuto reale della nostra vita e che sono l’oggi di Dio.

Questa nostra esperienza personale non può essere prestata. Ci sono cose che io non posso fare al posto di un altro. Non posso dire di sì a Dio al posto di un altro, essere fedele al posto di un altro. Il mio olio, la cura del mio rapporto con il Signore è qualcosa di personale, che non posso dare ad un altro.

Chiediamo al Signore la grazia di essere vigili, di non perdere queste occasioni. Possiamo pregare con le parole della colletta della Messa:

O Dio, voce che ridesta il cuore,
nella lunga attesa dell’incontro con Cristo tuo Figlio
fa’ che non venga a mancare l’olio delle nostre lampade,
perché, quando egli verrà,
siamo pronti a corrergli incontro
per entrare con lui alla festa nuziale.

Suor Sara della Trinità

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La pagina di Vangelo di questa domenica fa parte di un lungo discorso che raccoglie una serie di ammonizioni rivolte da parte di Gesù a coloro che più volte lo avevano avversato e messo alla prova, e che facevano parte delle guide legittime del popolo, ritenuti maestri delle sacre Scritture e modelli da seguire.

Qui Gesù, rivolgendosi ai discepoli e alle folle, denuncia tre atteggiamenti di scribi e farisei che in realtà nascono da inclinazioni che abitano in ogni uomo e a cui tutti dobbiamo sempre stare attenti. Gesù sta parlando a ciascuno noi, mettendoci in guardia dall’ipocrisia, dal bisogno di apparire e dall’amore per il potere. Essere esigenti con gli altri su aspetti che noi per primi non siamo in grado di osservare; fare le cose per essere visti e riconosciuti dagli altri; essere chiamati maestri e padri pensando che la nostra dignità dipenda dai titoli che abbiamo. Sono tutte tentazioni che stanno alla porta del nostro cuore.

Ma che cosa sta, in fondo, alla radice di questi atteggiamenti? Il non sapersi e sentirsi amati. Siamo figli di un Padre che ci ama in modo del tutto gratuito e incondizionato. La nostra dignità sta in questo. Ma se non abbiamo questa coscienza, il nostro naturale bisogno di ammirazione e di stima si tradurrà in pretesa e prevaricazione. Se non scopro la mia identità nella stima e nell’amore infinito che Dio ha nei miei confronti, la cercherò necessariamente in qualcos’altro: cercherò di ottenere questo amore attraverso le cose che in qualche modo mi rendono ammirabile ai miei occhi e a quelli degli altri.

Qual è il “vangelo”, cioè la buona notizia di questo discorso così duro di Gesù? Qual è la possibilità annunciata? È quella di una vita diversa, nella quale riconosciamo di essere tutti figli in cammino, tutti discepoli bisognosi di essere guidati dal Signore. Una vita diversa, nella quale i doni che ciascuno di noi ha invece di venir usati per sentire di essere qualcuno, per ottenere lodi e riconoscimenti, per dominare, possono essere messi in gioco per amare e per servire, come Dio fa con noi.

Il più grande è chi ha il cuore più grande, chi ha il cuore come quello di Dio, cioè chi ama di più, chi mette la propria vita a servizio dei fratelli.

 

Suor Sara della Trinità

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