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Leggendo il Vangelo di oggi ci può venire un po’ di angoscia, ed è proprio questa l’esperienza che la Parola vuole toccare: questo sentimento che a volte avvertiamo solo in modo impercettibile quando ci fermiamo un attimo dal nostro correre quotidiano. E’ la sensazione che tutto vada a rotoli, che manchino i punti di riferimento (non c’è più sole per il giorno nè luna di notte, le stelle non ci sono ad orientare il nostro cammino nel buio), ci sentiamo smarriti e in un grande caos che provoca ansia, disagio. A volte questo sentimento ci viene guardandoci indietro e vedendo che molte attività o rapporti su cui avevamo investito le nostre energie o ideali, sono finite, sono passate, per cui ci troviamo con un gusto un po’ amaro per quel che abbiamo vissuto: pensiamo che non è rimasto nulla del nostro impegno, della vita che abbiamo speso, e ci viene a mancare senso e speranza. Nella preghiera di oggi possiamo lasciar affiorare questo sentimento un po’ indistinto, di tristezza e ansia, per lasciare che venga penetrato dalla Parola di oggi.

Egli è vicino, è alle porte. Il Signore è qui ai piedi della nostra vita, pronto a donarci la sua vita nuova, a portare una nuova creazione, lì dove vediamo crollare le nostre sicurezze. Egli è il nostro riferimento, saldo e sicuro come una roccia. Appoggiamoci a questa roccia, sentiamone la solidità e soffermiamoci sul sentimento di sicurezza e sollievo che ci dona. Il Vangelo ci offre anche un’immagine: il ramo di fico che sta per germogliare. E’ un evento assolutamente silenzioso, non si nota, ma è vero e sta avvenendo ora, nella nostra vita:

Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? (Is43)

Il mondo passa, con tutti i riferimenti che abbiamo avuto lungo il cammino, con tutto il lavoro che abbiamo svolto, sembra la fine di tutto, ma una cosa resta: l’amore con cui abbiamo amato, e la presenza di Dio, sempre al nostro fianco. Alleniamo lo sguardo a riconoscere i segni di speranza, i segni della vita nuova che germoglia. Egli infatti ci è vicino, è al nostro fianco, solido compagno del nostro cammino.

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Il Vangelo di questa domenica è un gioco di sguardi. Possiamo osservare dove si pone lo sguardo dei vari personaggi, dove è rivolta la loro attenzione.

Lo sguardo degli scribi è rivolto a se stessi, hanno bisogno dell´ammirazione, dei ringraziamenti, dell´approvazione degli altri. Perfino nella preghiera il loro incontro con Dio è disturbato dal bisogno di essere notati e considerati dagli altri come perfetti israeliti. Forse non sono consapevoli della propria dignità davanti a Dio, di quanto Dio li ami così come sono.

La vedova, pur nella sua povertà, non si rinchiude in se stessa, ma getta le sue due monetine nel tesoro del tempio come offerta per i poveri. Non ne tiene una per sé, dona tutto ciò che ha. Forse perché ha molta fiducia in Dio, che, come Padre buono, si prenderà cura di lei e dei suoi bambini. Sa di essere importante agli occhi di Dio, le basta il Suo sguardo d´amore e non ha bisogno di altro.

Mi viene da dire che il vero povero in questo caso è lo scriba, perché è amato da Dio, ma non se ne accorge, e cerca quest’amore negli altri.

Un altro sguardo molto interessante è quello di Gesú, che osserva le due scene e le fa notare ai suoi discepoli. Non vede solo l’azione esterna, non rimane in superficie, ma scruta il cuore, la motivazione che spinge ad agire e loda la vedova per la sua generosità.

Anche noi possiamo farci questa domanda ogni giorno, in ogni azione:

Dove è rivolto ora il mio sguardo? A me stesso, agli altri, a Dio?

E se ci accorgiamo che il nostro sguardo non è rivolto dove vorremmo, possiamo chiedere a Dio la grazia di ri-orientarlo verso di Lui e verso gli altri, di farci sperimentare quanto è grande il suo Amore per noi, per vivere da figli amati, liberi dal giudizio degli altri.

sr Maria Francesca del Buon Pastore

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Nel Vangelo di oggi siamo posti di fronte al senso della nostra vita: amare ed essere amati. Fare tutto con amore e per amore. Senza l’amore, ed un amore totale e totalizzante, tutto perde di senso e di attrattiva. Qui parliamo di un amore che sia  con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.

San Giovanni della Croce afferma: Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore. Perchè è l’amore ciò che resta di tutto quello che abbiamo fatto e vissuto. L’amore donato, e quello ricevuto.

Amare è un atto che coinvolge sentimento, volontà e ragione. Quando viviamo per qualcuno, c’è di mezzo il nostro sentimento (che può nel tempo essere più o meno forte), ma anche la nostra scelta: scegliamo di amarlo nel bene e nel male, ci sta a cuore e dunque spendiamo la nostra vita, il nostro tempo, le nostre forze e risorse, per quella persona o realtà. Vivere per è il segreto di una vita colma di senso perchè consumata nell’amore.

Possiamo amare gli altri per un’eccedenza d’amore: quando prendiamo contatto e consapevolezza di quanto siamo amati. Per questo è fondamentale stringersi al rapporto con Dio che ci ha amato per primo e che apre il nostro sguardo ai segni d’amore che costellano le nostre giornate.

Possiamo amare gli altri, solo se li amiamo come noi stessi: “Come te stesso ci ricorda che per amare abbiamo bisogno di essere riconciliati con noi stessi: voglio davvero il mio bene? Molte relazioni tossiche hanno la loro radice in questa mancanza di amore per noi stessi. Se non mi sento amato, se non mi riconosco amabile, se mi percepisco sempre inferiore e indegno, ciò che esce da me sarà probabilmente il frutto della frustrazione. Tante azioni cattive nascono da questa percezione distorta di se stessi. Occorre perciò tornare all’origine, occorre ritrovare la consapevolezza di essere amati da sempre da Colui che per me ha dato la vita, una volta per sempre, e che non ritrae la sua parola” (citazione tratta da Gaetano Piccolo).

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Siamo davanti ad un brano del Vangelo di Marco, che ci coinvolge e non ci lascia indifferenti: Gesù che è in cammino, sale verso Gerusalemme, un cieco che non dà pace e fa tanto rumore e la folla che cerca di organizzare la processione e avere la situazione sotto controllo. Insomma, è un racconto molto dinamico e movimentato.

Bartimeo è un cieco, o meglio è diventato cieco, ciò rappresenta l’immagine della nostra condizione interiore. Quante volte anche noi, non vediamo più il senso della nostra vita e diventiamo ciechi; non sappiamo cosa sia giusto fare, siamo smarriti e viviamo nel buio.

Quel che colpisce in Bartimeo è la sua lucidità nel riconoscersi cieco e bisognoso di ri-avere la vista. Lui non si rassegna al suo buio, alle tenebre, non si arrende davanti alla sua tristezza, al suo vuoto. Questo cieco non si abitua alla cecità e soprattutto non si accomoda in uno stato di depressione e vittimismo per la propria mancanza. Sentendo che Gesù passava, ne approfitta per mettersi in contatto con Lui.

L’atteggiamento di Bartimeo è una Vera Preghiera, egli grida: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli è un uomo tenace che non lascia soffocare la sua preghiera da un qualsiasi intervento esteriore, arriva a ripetere il suo grido in modo più forte. Questa sua ostinazione S. Teresa di Gesù la chiamerebbe determinazione. Nel nostro cammino spirituale è necessario avere una determinata determinazione, lottare sempre costi quel che costi fino ad arrivare all’obiettivo: un contatto personale con Gesù. Bartimeo ha fatto proprio questo. “Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!».” Il suo grido è stato ascoltato e addirittura Gesù si è fermato per rispondergli. Il segreto della fede di quest’uomo è proprio qui: nel credere che prima o poi Gesù avrebbe risposto. Non ha smesso la sua continua richiesta e non si è annoiato né stancato. Che grande fede!

“E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».” È molto bello oltre che è importante trovare qualcuno nel cammino che ci incoraggia ad alzarci, indicando che Gesù ci sta chiamando. Mi chiedo a quale folla appartengo: a quella che sgridava il cieco che provava a chiamare Gesù o a quella che incoraggia tutti per avvicinarsi a Lui avvertendoli che Egli li chiama?

 “Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù” Bartimeo si sente finalmente libero, e compie un gesto di liberazione ovvero getta via la sua sicurezza, il suo mantello che lo copriva e forse gli impediva di camminare. Lui corre verso Gesù; sembra finalmente strappare il velo e abbandonare il suo stato di prima.

È evidente ciò di cui ha bisogno uno cieco: la vista. Gesù però gli chiede: «Che vuoi che io ti faccia?» per aiutarlo ad essere più consapevole del proprio desiderio. Tante volte essere cieco ci torna meglio, preferiamo essere non vedenti per non assumere la responsabilità di vedere la realtà. Gesù con le sue domande ci dà l’opportunità di prendere coscienza.

Il nostro cieco è ostinato nel suo desiderio: «Rabbunì, che io veda di nuovo!» nella sua risposta profonda si sente tutta la nostalgia di luce e la sete di vedere. E da bravo mendicante: sa chiedere. Ma questa volta chiede alla persona giusta e infatti ottiene ciò che desiderava; “Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.” Ora Bartimeo vede e può decidere che strada prendere, egli sceglie di seguire Gesù lungo la sua strada.

Dunque, in questa domenica approfittiamo per chiedere al Signore la grazia di avere la luce e di vedere di nuovo il senso della nostra vita e decidere quale strada fare, sapendo che la via dietro Gesù è quella sicura che ci porta alla Vita Piena.

Suor Dina della Santa Famiglia

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Oggi il Vangelo ci invita ad andare alla nostra sete, quella che cerchiamo di placare venendo riconosciuti o nel lavoro, o nelle relazioni. Ci chiede di riconoscere quella spinta interiore che ci fa vivere la vita come una grande competizione, dove valiamo qualcosa se ne siamo i primi, altrimenti ci sembra di non aver  più valore. Questa sete di potere, prestigio, successo, ci lascia frustrati. Gesù non si lascia strumentalizzare dai nostri desideri mal collocati, ma ci propone un cambio di prospettiva.

Questa svolta avviene nel servire.

Non nella tensione del prevalere sull’altro,

ma nell’atto di servirlo.

Il servitore, il cameriere, serve per nutrire i suoi convitati, che nel pasto condiviso fanno inoltre un’esperienza di comunione.

Cristo ci nutre, è a servizio della nostra vita, ogni volta che tocchiamo questa paura “di non contare”, ogni volta che avvertiamo la sete di essere stimati a amati, Lui si china e ci serve. Cristo è a servizio della nostra comunione, ovvero della mia capacità di aprirmi e unirmi veramente all’altro. E come ogni cameriere, serve in modo anonimo, senza essere notato, è semplice strumento della nostra gioia.

Fin tanto che beviamo al pozzo del potere, scopriremo sotto la tensione della competizione, arsura e amarezza. Quando beviamo l’acqua viva della relazione con Cristo, troviamo pace.

Servendo, amiamo, e dunque viviamo.

 

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In questa domenica ci viene proposto di spostare il fondamento della nostra esistenza.

C’è dunque da chiedersi: su cosa baso le mie sicurezze? Dove mi sento sicuro?

Ci sono sicurezze materiali che non sono negative in sè, ci danno appunto un benessere materiale che sostiene la nostra vita.

Ma il loro compito finisce qui. Restano comunque precarie e limitate, non possiamo chieder loro di darci più di quello che ci possono dare.

Così quando avvertiamo in noi un’ansia o un vuoto che inspiegabilmente anela pienezza, stabilità, eternità, dobbiamo essere consapevoli che non sarà accumulando tali beni che troveremo pace, neppure accumulando prestazioni in un “fare” un po’ nevrotico.

Qui interviene l’invito del Signore, qui siamo chiamati oggi a spostare lo sguardo e a rimanervi nella nostra preghiera.

Il vero fondamento della vita non sta in una certa immagine sociale o prestigio lavorativo o sicurezza economica. Ma nell’amore che sperimentiamo incontrando lo sguardo di Gesù: fissatolo, lo amò.

Gesù mi ama perché vede quello che c’è dentro di me, vede la verità di me stesso. L’amore che Gesù ha per me non è il premio per quello che ho fatto.

Lasciamoci dunque guardare, sostiamo presso questo sguardo d’amore che sempre ci precede.

Mille sguardi ci guardano, ma a volte incontriamo uno sguardo che ci entra dentro e che si radica nella nostra anima perchè ci fa sentire compresi, conosciuti, amati.

A partire da questo sguardo il Signore ci chiede dunque di entrare in relazione con Lui.

Ci propone di abbandonarci con fiducia in Lui, come unica vera sicurezza della nostra vita.

Ci propone di lasciare quel che ci appesantisce o ci incatena nella paura “senza questa cosa, senza fare questo o quello…mi mancherà la terra sotto i piedi! sarò perso!”… Proviamo già ora, dentro di noi, nel silenzio della preghiera, a compiere questo atto interiore di mollare le nostre paure e i nostri attaccamenti per attaccarci alla relazione con Cristo.

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I farisei domandano a Gesù quello che già sanno: tutti sanno che la legge mosaica permette il divorzio. Ma Gesù cerca di passare ad un altro piano:

DAL piano dell’osservanza della regola, di lecito/non lecito, posso? non posso?

AL piano del valore da custodire, del significato che si trova alla base della regola stessa.

La legge mosaica permette il divorzio per la fragilità dell’uomo, per la durezza del suo cuore, ovvero per quel suo atteggiamento che si irrigidisce nel proprio modo di vedere, nelle proprie posizioni. L’uomo a volte si indurisce e si chiude fino al punto da non riuscire ad amare, ovvero ad accogliere l’altro lasciandosi da lui anche un po’ cambiare e smussare, così da rendere possibile l’unione.

Gesù allora ci aiuta a prendere consapevolezza che non si tratta solo di una regola da rispettare o meno. Si tratta invece di qualcosa di più profondo: la posta in gioco è di tipo esistenziale, ne va del senso della nostra esistenza, ne va della nostra vera gioia. Nella relazione di coppia, infatti, come in tutte le nostre relazioni, quello che noi cerchiamo e desideriamo, e che ci dona un senso di completezza e compiutezza, è l’unione, la comunione, che ci fa assaggiare qui sulla terra l’ eternità, quando vivremo l’unione completa con Dio.

Nell’incontro profondo con l’altro facciamo esperienza di Dio, questo è il significato delle nostre relazioni, cui ci vuole condurre il Signore.

L’essere umano si realizza solo se ha qualcuno davanti a sé: un aiuto che gli corrispondesse (Gen 2,20). L’essere umano ha bisogno di uno che gli risponda. È questo per la Genesi il senso della duplicità insita nell’umanità: maschio (iš) e femmina (išša). Quando ci isoliamo, quando non ascoltiamo più nessuno, quando ci chiudiamo nel nostro mondo, quando l’altro è sempre e solo un nemico, tradiamo la nostra dimensione umana! (Gaetano Piccolo)

Perchè l’unione sia possibile, ci viene chiesto di accogliere la debolezza, dell’altro e nostra, consapevolmente. Il bambino è proprio il simbolo di ciò che è più vulnerabile e bisognoso. Si tratta di rinunciare a relazioni di possesso dell’altro, rinunciare a relazioni “usa e getta”, di manipolazione o controllo, per scegliere delle relazioni autentiche, in cui stiamo di fronte all’altro “nudi”, nella nostra verità, e così ci doniamo, e permettiamo all’altro di donarsi a noi nella sua diversità. Abbiamo bisogno di relazioni in cui ci prendiamo cura l’uno dell’altro, l’uno della fragilità e piccolezza dell’altro, affinchè non degenerino in relazioni distruttive, ma siano relazioni in grado di generare vita.

Siamo accorti nel formare e nel conservare l’unione coniugale, amiamo la parentela a noi concessa. Se coloro che sono stati separati in lontane regioni sin dal tempo della loro nascita ritornano insieme, se il marito parte per l’estero, nè la lontananza nè l’assenza possano mai diminuire l’amore reciproco.

Unica è la legge che stringe i presenti e gli assenti: identico è il vincolo di natura che stringe, nell’amore coniugale, sia i vicini sia i lontani; unico è il giogo benedetto che unisce i due colli, anche se uno deve allontanarsi assai in regioni remote: hanno infatti accolto il giogo della grazia non sulle spalle di questo corpo, ma sull’anima.

(Ambrogio, Exameron, 5,18)

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PREGARE IL VANGELO DELLA XXVI DOMENICA

E’ istintivo chiudersi e formare “la propria cerchia”, dove ci identifichiamo e proviamo sicurezza. Gesù ci invita ad abbassare le difese e ad aprirci, accogliendo la differenza dell’altro. La differenza non è minaccia. La differenza può essere un luogo di arricchimento reciproco, anche quando questo processo d’incontro-scontro è più faticoso, perchè mette in discussione le nostre sicurezze, o perchè ci rende vulnerabili e ci espone al rischio di essere feriti nella nostra immagine – identità.

Nella preghiera di oggi possiamo, respiro dopo respiro, trovare la sicurezza e il senso di appartenenza di cui abbiamo bisogno in Cristo, vera roccia, vero sostegno della nostra vita.

Molliamo via ogni paura che ci chiude e irrigidisce.

Non solo: tagliamo con ogni pensiero o atteggiamento che non ci fa bene, che ci blocca nel cammino, scegliendo il pensiero di Cristo.

Mano, piede e occhio. Ovvero, ogni atto che non costruisce relazioni, ma sfrutta o usa, è da tagliare (la mano). Il piede è ciò che ci sostiene e ci fa muovere, per cui tutti i falsi sotegni, che non sono in grado di farci crescere ma anzi ci bloccano a terra, sono da abbandonare, per radicarsi in quello vero. L’occhio è specchio dell’anima: abituiamolo a guardare la bellezza, abituiamolo ad assumere lo sguardo di Dio su noi stessi e gli altri, così da non avvelenare, con uno sguardo avido o negativo, la nostra interiorità.

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Accogliere è il verbo che vogliamo sottolineare questa domenica, è il movimento interiore che saremo invitati a compiere durante la nostra preghiera.

Nella prima e nella seconda lettura di oggi viene descritto il nostro punto debole:  vediamo l’altro come un nemico o un rivale. Ci sentiamo giustificati a nutrire pensieri o sentimenti di gelosia, invidia, rancore, perchè non digeriamo l’altro così com’è, la sua alterità scatena in noi una tempesta, stuzzica e infiamma parti scomode e buie di noi stessi. Per questo le relazioni sono molto preziose: finchè siamo soli ci sentiamo molto buoni e giusti, poi quando entriamo in relazione con qualcuno ci scappano da dentro reazioni di aggressività inaspettata, che ci mettono davanti alla realtà fragile di noi stessi, che si rispecchia nell’altro.

La confidenza che Gesù affida ai discepoli riguardo alla sua morte e risurrezione provoca nei discepoli una reazione inaspettata: discutono animatamente su chi è il migliore, su chi ha le carte buone per poter prendere il posto del maestro, destinato a morire. La paura della morte, la paura di non valere, ci fa cadere nell’istinto del “morte tua, vita mia”, come se umiliando l’altro, noi ne veniamo fuori un po’ migliori e un po’ più forti.

Gesù non si scandalizza della fragilità che viene alla luce dai cuori dei suoi discepoli. Non la giudica, non vi si scaglia con durezza A volte siamo noi i giudici più duri, non solo verso gli altri, ma anche contro noi stessi. Gesù compie il gesto di abbracciare un bambino, ponendolo al centro dello sguardo e dell’attenzione di tutti. Il bambino è proprio il simbolo della nostra debolezza che ci portiamo dentro anche da adulti grandi e vaccinati. Il bambino rappresenta inoltre la realtà dell’altro, che anche se esternamente può presentarsi come minaccioso, in realtà non è altro che un bambino da accogliere.

Sospendiamo il giudizio sull’altro, lasciamo per un attimo calmare e tacere la passione che può turbare il nostro cuore, e guardiamolo per quello che è: un bambino da accogliere, come lo siamo noi.

E lasciamoci finalmente abbracciare.

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Chi sono io per te?

Gesù in questa domenica ci pone questa domanda: lascia perdere quel che si dice di me, io per te chi sono? Prima di affrettarci a dare una risposta, possiamo restare in silenzio, lasciando risuonare in noi questa domanda.

Le domande importanti ci conducono ad un silenzio interiore e a contenuti ulteriori che vanno ben oltre ad una semplice risposta “corretta”.

Le domande di Gesù, infatti, mettono sempre in moto dei processi che noi chiamiamo di salvezza: ovvero di guarigione, liberazione.

A questa domanda, segue un tema un po’ difficile da digerire: la sofferenza. Questo tema scomodo viene aperto e presentato da Gesù come un luogo di rivelazione: nella sofferenza verrò messo a nudo, conoscerete il mio vero volto. Così è nella nostra vita: attraversare la sofferenza significa lasciarsi mettere a nudo, stringersi sempre più all’essenziale della vita, con Cristo, e per Cristo, e rinascere a una consapevolezza ed a un’unione con Dio sempre più piena.

sr Marta del Verbo di Dio

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